Un’intervista rimasta nascosta per quattro anni, in attesa di ricevere la giusta collocazione all’interno di una pubblicazione più ampia. Ma il tempo passa e allora, in attesa della “pubblicazione più ampia”, è giunto il momento di tirarla fuori dal nastro. Perché la storia merita, perché lei è Gloria Christian. Sì, “quella” Gloria Christian, cantante simbolo di un’epoca d’oro della canzone italiana, prima che napoletana (che poi spesso le due “canzoni” coincidono).
Gloria (Prestieri), nata a Bologna durante una tournée del padre trombettista di jazz, è figlia di Napoli, città nella quale si trasferisce in tenerissima età. Prima ancora di diventare l’artista simbolo della Vis Radio, per la quale inciderà decine di successi tra gli anni ’50 e ‘60, si avvicina alla musica attraverso l’ascolto del jazz. Quello arrivato da pochi anni in città con gli Americani o caduto dal cielo sotto forma di V-disc (sempre ad opera degli Alleati). Lo stesso praticato dal futuro marito, al quale si deve il merito di aver scoperto le doti della futura Cerasella.
Della sua carriera si sa tutto, poco sapevamo dei suoi esordi napoletani. Eravamo curiosi e Gloria ci ha aperto la sua casa…

 

Pochi sanno che il tuo amore per il canto si deve alla “musica americana”, sebbene tu sia poi diventata di fatto un’ambasciatrice della musica italiana nel mondo. E’ vero?

Sì, è così. Innanzitutto da piccola andavo a vedere al cinema tutti i film americani, arrivati in gran numero dopo la guerra e che erano pieni di canzoni americane e di jazz. E ascoltando sentivo che c’era qualcosa che mi apparteneva, nel modo di cantare, nelle armonie. Ma non mi rendevo conto che questa “appartenenza” valesse solo per me, pensavo che per tutti fosse così. Anche prima di scoprirmi cantante, quando canticchiavo per conto mio, io già cantavo in quella maniera.

Ho certamente subito più l’influenza di quegli ascolti che la presenza di mio padre, che era un trombettista anche jazz, però suonava più che altro con le compagnie di varietà in giro per l’Italia. Suonava con le grandi compagnie, da quella di Wanda Osiris a quella di Totò. Quando si esibiva a Napoli andavo sempre ad ascoltarlo, mi infilavo nella buca e seguivo tutto da lì. Quindi certamente assorbivo da canali diversi, ma non avevo mai ancora pensato di fare la cantante prima dell’incontro con mio marito…

Andavo a scuola con la sorella di quello che sarebbe diventato poi mio marito, Lillino Boccalone. Frequentavo quindi la sua casa e lui, più grande di me, già suonava con un complesso nei vari circoli. Erano tutti studenti. La differenza d’età tra noi era notevole. Io avevo 12 anni, lui già maggiorenne, tant’è che la prima volta che andai a casa sua mi aprì e, rivolgendosi alla sorella Tina, mi annunciò dicendo che c’era una “bambina” sull’uscio. Ci fidanzammo solo dopo qualche anno.

Lo seguivi nei suoi concerti?

Sì, spesso lo seguivo quando suonava con il suo complesso nelle feste musicali che si tenevano in casa a quei tempi e spesso anche alla prove. Un giorno, mentre provavano a casa di un pianista, cominciai a canticchiare senza farmi sentire (era quello che pensavo…). Fu così che vollero per forza farmi cantare un pezzo. E per caso quel pezzo, di Doris Day mi ricordo, entrò nelle registrazioni che loro effettuavano per riascoltarsi. Tempo pochi giorni e quella registrazione aveva fatto il giro dell’ambiente. Fu così che mi chiamò Lillino e mi disse che c’era una persona che voleva sentirmi cantare. Prima cercai di resistere, presa dalla timidezza e dal fatto che non avevo mai cantato davanti ad altre persone, poi cedetti. Andai all’appuntamento e trovai Marino Marini, pianista, cantante e compositore che in quel periodo suonava al locale “La Conchiglia” a Napoli (n.d.r. dove rimase cinque anni, prima di spiccare il volo prima a Milano e poi a Parigi, in Inghilterra e fino in Giappone). Mi sentì cantare e praticamente mi “ingaggiò” per uno spettacolo che si sarebbe tenuto di lì a poco al Metropolitan, uno spettacolo per gli studenti e per le scolaresche. Mi ricordo che mi ritrovai dietro le quinte con un esordiente Alighiero Noschese, nella veste di presentatore, che tremava dalla paura, tanto da trasmetterne anche a me che ero arrivata lì nella piena incoscienza. Fu un grande successo. Cantai Again, bellissima canzone americana, e il gradimento dei ragazzi fu enorme.

La cosa giunse all’orecchio di mio padre, che in estate metteva su dei gruppi per suonare in giro. Quell’anno con un quartetto stava organizzando dei concerti a Portici. Di solito in estate, durante le vacanze scolastiche, come molti miei coetanei, lavoravo. Mi occupavo del bancone della birra nel ristorante “Pizzicato”, a piazza Municipio, uno dei primi grandi ristoranti di Napoli con i suoi 1600mq, famoso anche per la presenza assidua degli americani nel Dopoguerra. Normalmente lavoravo lì, anziché andare al mare, fino alla ripresa delle lezioni. Ma quell’estate mio padre volle che andassi a cantare con lui. Così mi organizzai un piccolo repertorio di canzoni che ascoltavo in radio.

Anche se non “inseguivi” la musica, il destino aveva deciso altro…

Ero ancora occupata con la scuola, per cui durante l’anno cantavo un po’ in giro, ma non era quella la mia attività principale. Nonostante questo mi ritrovai una sera a cantare all’interno del Circolo dei Sottufficiali della NATO. In verità fu invitato a suonare con un ingaggio di 3000 lire a testa Lillino con i suoi amici, ma vollero che andassi anch’io. La mia voce e il mio modo di cantare piacque tanto che mi vollero anche per il sabato successivo. Capii, però, che così come non mi avevano pagato la prima volta, non mi avrebbero pagato nemmeno la seconda. Anzi, l’impresario che gestiva il gruppo provò a convincermi promettendomi le 3000 lire che sarebbero dovute andare a Lillino… Capìta l’antifona quel sabato non mi presentai. Fu così che successe quello che si vedeva in tanti film americani dell’epoca. Cominciata a serpeggiare tra il pubblico la notizia che la cantante non c’era, i Sottufficiali si rivoltarono rompendo tutto quello che gli capitava sotto, tavoli, bicchieri, distruggendo praticamente il Circolo…

L’estate successiva, dopo una nuova audizione con Marino Marini, fummo ingaggiati al “Grotta Romana”, locale sul lungomare partenopeo. In quel periodo c’era un concorso radiofonico che si chiamava “La bacchetta d’oro” e che trasmetteva musica dai locali più prestigiosi d’Italia. Quell’anno (1952) fecero una tappa anche al “Grotta Romana” e io cantai due canzoni americane. In ascolto da Milano c’era il maestro Gino Conte, napoletano, che dirigeva l’Orchestra della RAI e aveva legato il suo nome a quello di Claudio Villa, che però cantava un genere che a me non attirava molto… Gino Conte era il Direttore della Grande Orchestra Vis Radio fin dalla sua fondazione. L’etichetta discografica Vis Radio era nata nel 1948 per la lungimiranza di Aldo Scoppa, come “ramo” di un’azienda che produceva radio, con lo scopo di investire nella produzione di nuovi artisti, soprattutto napoletani. Aveva sedi anche a Milano e Roma, oltre che a Napoli, dove possedeva anche degli studi di registrazione.

Ma è a Milano che Gloria diventa “Christian”, non senza qualche pentimento…

Nel 1954, dopo il diploma, andai a Milano, chiamata da Gino Conte, a registrare. Si registrava dal vivo, in diretta, con l’orchestra. Qui eseguii un programma di canzoni italiane. Mi fecero incidere dei pezzi da film, tutti film musicali, come quelli di Marylin Monroe, che riproponevano su disco in italiano. Ma c’erano anche canzoni americane, con testo inglese. Infatti il nome d’arte Christian nacque proprio per creare un’ambiguità italo-americana… L’orchestra ritmo-sinfonica della Vis Radio era magnifica, gli archi meravigliosi. Praticamente quasi tutti i musicisti milanesi, i fiati in particolare, erano quasi tutti jazzisti.

Ma all’inizio il nome d’arte mi creò non poche difficoltà che mi impedirono, tra l’altro, di andare al Festival della Canzone Napoletana. Non mi volevano, la casa discografica si rammaricava pensando di aver fatto un guaio… Tant’è che ho cantai prima al Festival di Sanremo e solo dopo al Festival napoletano.  Paradossalmente furono proprio i successi di Sanremo che mi permisero di cantare a Napoli.

Il jazz fece posto alla canzone italiana, di cui saresti diventata di lì a poco la nuova icona, o ne diventò una componente?

Le mie apparizioni in ambito jazzistico cominciarono ad essere sempre più rare, visti i successi con le canzoni italiane e napoletane. Però si era saputo nell’ambiente che cantavo anche con gruppi jazz. E fu un fatto positivo, perché molti direttori ne erano incuriositi. Era una cosa che mi diede prestigio, per me è stata una breve scuola di formazione e un “passaporto” per guadagnare la considerazione dei direttori d’orchestra. Di fatto, prima, erano loro a fare il cast, a chiamare i cantanti e i musicisti. Del resto, prima di Sanremo, negli anni in cui ancora andavo a scuola, cantavo alla NATO tre volte alla settimana.

Gianni Ferrio e Armando Trovajoli non poterono che confermarmi nelle loro orchestre per la mia musicalità. Mi ricordo della terza edizione del Festival Internazionale della Canzone di Venezia con Trovajoli (1957). Quella di Trovajoli era un’orchestra bellissima, aveva i migliori musicisti, e per gli arrangiamenti si faceva aiutare da un altro grande musicista come Zeno Vukelich, straordinario. Ero felicissima di andare a Venezia. Sapevo però che il maestro Giulio Razzi, Direttore Generale della Rai, aveva imposto a Trovajoli di non esagerare con sonorità jazz, perché dovevamo rappresentare l’Italia. Il mio era un pezzo swing, poi c’era Fausto Cigliano con la chitarra e una cantante lirica. Arrivati a Venezia trovammo delle orchestre sfavillanti, agguerrite e tutte strizzavano l’occhio alle migliori orchestre americane. Trovajoli era rammaricatissimo, perché aveva le mani legate. L’unico pezzo swing, molto leggero, era il mio, che cantavo Stupidella. Alla fine vinse l’Olanda e l’orchestra di Trovajoli arrivò seconda. Il Maestro mandò me a ritirare il premio…

Altro ricordo bello di quella manifestazione è legato a Natalino Otto. Stupidella era uno swing tradotto dal brano A sweet old fashioned girl di Bob Merrill, cantato nel 1956 da Teresa Brewer. Natalino Otto l’aveva inciso in un suo disco in uscita. Quando seppe che l’avrei cantata a Venezia posticipò l’uscita del disco, così da dare a me la possibilità di cantarla per la prima volta. Per me fu un gesto di grande gentilezza, che non dimenticherò mai.

Purtroppo della tua carriera jazzistica restano pochi riferimenti. Ce ne vuoi parlare?

Il jazz lo cantavo con i ragazzi del Circolo Napoletano del Jazz, quando potevo, ma naturalmente non si incideva nulla, perché non c‘era mercato. Mi ricordo delle varie sedi del Circolo, da quella in via Luca Giordano fino alle serate al Circolo della Stampa. Con me c’era sempre mio marito, che però non era un professionista. In quegli anni frequentava l’Università e si laureò con un certo ritardo proprio perché suonava. Non ci sono tracce purtroppo di quest’attività. Renzo Arbore racconta spesso un episodio che mi vide involontariamente coinvolta durante un concerto al Circolo della Stampa. Il gruppo era composto, oltre che da me, da Lucio Reale al pianoforte, Lillino Boccalone al contrabbasso e Antonio Golino alla batteria. La canzone era Too Marvelous for Words, appena sussurrata, sostenuta da pochi accordi del piano. Un’interpretazione molto sentita e delicata. E c’era il batterista Antonio Golino dietro che fremeva, con le bacchette in mano, senza poter intervenire… Andai avanti fino al finale rubato, quando Golino avrebbe dovuto staccare il tempo per l’ingresso degli altri strumenti. Invece aprì sganciando una bacchettata colossale sul rullante che a tutti sembrò uno sparo, un colpo di fucile, tanto che tutti si alzarono in piedi guardandosi attorno. Poi, sornione, riprese il tempo con le spazzole…

Lucio Reale per me è stato il più grande di tutti. Sicuramente il più grande che mi abbia mai accompagnato. Aveva un orecchio sopraffino, mi accompagnava con delle armonie fantastiche. Bastava che gli accennassi un motivo perché lui lo trasformasse in un capolavoro.  Mi ricordo anche di Santino Tedone, sassofonista che poi entrò nell’orchestra della RAI di Roma, Renato Marini, trombettista anch’egli della RAI, Silvio Reale, batterista e fratello di Lucio, Pericle Morghen, altro pianista molto sensibile. In particolare di Renato Marini mi ricordo di un episodio alla fine del concerto di Rafael Mendez al Metropolitan. Mendez era una delle leggende della tromba e Renato alla fine del concerto nei camerini si inginocchiò e gli bacio le mani. In generale tutta la ritmica napoletana era richiestissima fuori città. Da Pierino e Gegè Munari a Lino Liguori, nessuno di loro infatti restò a Napoli più del tempo necessario a farsi conoscere.

Nel 1961 fui invitata alla seconda edizione del Festival Italiano del Jazz di St. Vincent, alla quale partecipai con il chitarrista Willi Mauriello, Antonio Golino alla batteria e mio marito al contrabbasso. Forse quella è l’unica testimonianza di una mia partecipazione ad una rassegna jazzistica.

In generale ho collaborato con diversi jazzisti italiani. Mi ricordo, ad esempio, della mia partecipazione ad una trasmissione televisiva di Carlo Loffredo a Milano, in cui improvvisiamo sul brano Samba di una nota.

Gloria Christian con Jula de Palma

Infine non possiamo non chiederti delle canzoni che ti hanno dato fama.

Come ti dicevo, è cominciata prima la mia carriera italiana, nel senso del repertorio, e poi quella “napoletana”. Dopo Casetta in Canadà del 1957 al Festival di Sanremo, partecipai nel 1958 al primo Festival della Canzone Napoletana. E arrivarono pezzi come O treno d’a fantasia, Nnammurate dispettuse con Giacomo Rondinella. Entrai in questo ambiente in cui tutti se la tiravano in una maniera incredibile. Facevano a gara a chi dovesse uscire prima, a chi dovesse cantare prima… Poi ogni città aveva il suo festival ed io ero sempre presente, con le già famose Nilla Pizzi, Carla Boni, Flo Sandon’s, che era la moglie di Natalino Otto… ed io ero incredula, giovane studente, di dare del tu a Nilla Pizzi e alle altre già affermate cantanti. Le orchestre erano belle e la paga ottima. Flo Sandon’s era una delle poche ad avere un fraseggio jazz, e con lei anche Jula de Palma. Parallelamente c’era la produzione “napoletana” per le varie Piedigrotta, ma era una produzione qualitativamente limitata.

La scena cambiò radicalmente con l’avvento dei cantautori, che scrivevano per se stessi, quindi limitando il canto alle proprie possibilità vocali. Nonostante questo abbiamo avuto dei capolavori, ma in generale chi le scriveva era quello più indicato a cantarle. Spesso anche i testi erano condizionati dalle capacità vocali del compositore. Bruno Martino, ad esempio, mi raccontò che nella scrittura dei testi usava certe parole invece di altre, perché sapeva di non poter prendere certe note con la lettera “e”.