I-remember... Archivi - Sound Contest https://www.soundcontest.com/category/speciali/i-remember/ Musica e altri linguaggi Wed, 05 Jan 2022 09:51:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 KING CRIMSON | Red (1974) https://www.soundcontest.com/king-crimson-red-1974/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=king-crimson-red-1974 Wed, 05 Jan 2022 09:51:19 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=53425 Erano passati ormai cinque anni dalla pubblicazione di “In The Court of Crimson King”, il disco a cui fu dato, a torto o a ragione, il sigillo di capostipite di un nuovo filone musicale che dalla terra di Albione si espanse prima di tutto in Europa e in seguito, ma con minore intensità, nel resto […]

L'articolo KING CRIMSON | Red (1974) proviene da Sound Contest.

]]>
Erano passati ormai cinque anni dalla pubblicazione di “In The Court of Crimson King”, il disco a cui fu dato, a torto o a ragione, il sigillo di capostipite di un nuovo filone musicale che dalla terra di Albione si espanse prima di tutto in Europa e in seguito, ma con minore intensità, nel resto del mondo. Il Progressive Rock dunque nacque con i King Crimson, ed era il 1969 e nel corso degli anni a seguire, ci fu un fiorire di talentuosi artisti che si fregiarono con merito di questa etichetta. Conosciamo più o meno tutti la sequenza di dischi di notevole spessore e, perché no, di sperimentazione, ad opera di quel genio di Robert Fripp che, leader indubbio della band fin dal primo disco decide con “RED”, di chiudere un capitolo: la storia dei King Crimson romantici del Progressive. In realtà il ‘capitolo’ era già da tempo sotto inchiesta, i lavori chitarristici di Fripp nei due precedenti album erano già proiettati verso un futuro che apriva le porte ad una sperimentazione molto più spinta ed audace. Anche la band, reduce da una tournée americana viene in parte rimaneggiata, David Cross viene allontanato e compare solo come session man nei credits del disco. Restano insieme a Fripp (chitarra e mellotron), John Wetton (basso e voce) e Bill Bruford (batteria), tutti gli altri solo pagati a prestazione, e parliamo di Ian McDonald (fiati), Mel Collins (Sax soprano) e lo stesso David Cross (violino).

E’ cosi che nasce “RED”, dopo appena una settimana dalla chiusura del tour americano, i tre si chiudono in studio coadiuvati dai soliti collaboratori storici del Re Cremisi e registrano il disco che traghetterà la lunga stagione del prog su una sponda fatta di chitarrismo squadrato e ossessivo… si aprono le porte al Punk/New Wave. Non a caso il mitico Curt Cobain definì questo capolavoro “il più grande album di tutti i tempi”.

Apre il disco il brano che dà il titolo all’album, ossessivo e penetrante come un trapano nel muro alle 7 di mattina, un riff di chitarra ripetuta all’infinito e sovraincisa a diverse tonalità, i 6 minuti più lunghi di sempre, un’interminabile performance con la lente d’ingrandimento puntata sul gran lavoro di batteria (Bruford, un grande) e basso.

Segue Fallen Angel, la classica ballad alla Crimson, Wetton abbracciato dagli arpeggi graffianti di Fripp e fraseggi di tromba (Mark Charig) e oboe (Robin Miller)… c’è un uso di chitarra acustica che viene usata da Fripp per l’ultima volta con i King Crimson.

One More Red Nightmare chiude il lato A del disco, un pezzo tiratissimo, un riff ripetuto per tutto il brano pare avvolgerci in una spirale tenebrosa, è un tappeto steso a favore dei numerosi interventi di Ian McDonald e Mel Collins ai sax che pare illuminino la voce di Wetton. C’è una struttura di fiati da brividi, tutti in pista a ricamare dietro ad una melodia che vuole farsi spazio ma cede alla potenza di fuoco degli strumenti, qui Bill Bruford è da oscar! Una curiosità, il testo narra di un incidente aereo raccontato come un incubo, testo di Wetton che era terrorizzato dal volare.

Lato B, Providence, solo strumentale, il violino di David Cross dà il via ed è difficile credere che esista uno spartito di questo brano, forse un canovaccio ma niente di più, d’altronde chi ha seguito i King Crimson dal vivo sa cosa vuol dire seguire una traccia ma non sapere tra due minuti cosa si suona. Effetti elettronici, violino elettrificato, chitarra distorta al massimo, il basso ‘slappato’ (e siamo nel ’74!!!) di Wetton ed un lavoro di Bruford da farci studiare su a chi lo strumento vuole suonarlo davvero.

E’ stato solo un preludio finora, quattro brani che portano dritti ad uno dei più bei pezzi mai scritti:

Starless, oltre non si va, una poesia irraggiungibile per chiunque!

Una sinfonia di archi e mellotron che presentano un Wetton che sembra una carezza al cuore, e l’anima di McDonald che prende per mano Fripp in un fraseggio commuovente. La voce miscelata alla malinconia delle note del sax riesce a scaldarci il cuore pur lasciandoci un’immensa tristezza fino alle note prese dalle corde della Gibson e sostenute da una incredibile paranoia creata da una sezione ritmica da ansia crescente… la strada ci porterà dove c’è speranza di trovarsi, o ri-trovarsi, per un cammino dove finalmente si evitano le vie di fuga. Se “RED” è il miglior album dei KC, Starless è l’apoteosi, è tutta lì in 12 e passa minuti di vita assoluta, i primi 4 minuti sono un incanto, quanto di più intenso e profondo possa esserci, un inno all’amore che si perderà nei successivi minuti di profonda tristezza fino alle grida di aiuto del finale, che riprende il tema iniziale accelerando il tempo.

E’ l’epilogo schizoide!

Siamo assai strani noi, ascoltiamo musica da tutta la vita, parliamo dei nostri vecchi dischi e ci brilla una luce negli occhi, ci fa riconoscere tra di noi, ci fa provare le stesse emozioni nello stesso momento e per le stesse cose. La musica ha avuto ovviamente la sua normale evoluzione, ma tornare indietro non è solo nostalgia, noi questa musica non l’abbiamo solo ascoltata, l’abbiamo vissuta, siamo nati con lei, le emozioni di chi giovane oggi ascolta “RED” non possono essere uguali alle nostre, c’è un salto temporale e di esperienze che è incolmabile, il periodo magico non l’hanno vissuto. All’epoca non sapevamo che ascoltavamo il Progressive Rock, allora non capivo che anche loro che la musica la creavano avevano bisogno sì di tecnica, ma soprattutto di anima e di cuore, perché comporre Starless senza questi due ingredienti non è possibile, è per questo che amo questo disco e questo brano più di tutti, sono un inguaribile vecchio romanticone lo so, ma mi piaccio tanto così.

Buona musica.

 

Musicisti

Robert Fripp, Chitarra, Mellotron
John Wetton, Basso, Voce
Bill Bruford, Batteria
David Cross, Violino
Mel Collins, Sax Soprano
Ian McDonald, Sax Alto
Robin Miller, Oboe
Mark Charig, Cornetta

Tracklist

01. Red
02. Fallen Angel
03. One More Red Nightmare
04. Providence
05. Starless

 

L'articolo KING CRIMSON | Red (1974) proviene da Sound Contest.

]]>
JETHRO TULL | Aqualung https://www.soundcontest.com/jethro-tull-aqualung-2/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=jethro-tull-aqualung-2 Sun, 24 Oct 2021 11:20:09 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51979 Nel 1971 i JETHRO TULL pubblicano il loro quarto album dando seguito allo stile del periodo che voleva che i lavori pop seguissero il tema unico nello sviluppo dei brani. Il concept album fu AQUALUNG che trattava, nei testi soprattutto, la superficialità dilagante nella società, e le contraddizioni della religione.

L'articolo JETHRO TULL | Aqualung proviene da Sound Contest.

]]>

JETHRO TULL
Aqualung
Reprise Records
1971

Anziché studiare a scuola studiavo sui dischi, sul Ciao 2001, che era quasi l’unica rivista musicale esistente all’epoca, mi innamoravo di qualsiasi cosa riguardasse la musica che era (ed è) l’unica cosa che non ti tradiva, me la ritrovavo sempre lì disponibile, un disco, uno strumento, un articolo, un concerto… tutta per me senza nessun altro che te la potesse portar via, non avevo paura di perderla, era (ed è, ribadisco) tutta mia.
Ricordo il rammarico in quegli anni da adolescente di non essere nato in tempo per vivere appieno la nascita di movimenti musicali e di artisti che già avevano scritto parte della storia del Rock.

Mi capitò di innamorarmi della copertina di Stand Up, un disco che non avevo mai ascoltato e che scoprii (il rammarico, appunto) già vecchio di un paio d’anni. Nell’espositore del negozio di dischi, sotto al separatore ‘Jethro Tull’  trovai Aqualung, fresco di arrivo, decisi di prenderlo subito. Facevo sempre gli stessi gesti quando compravo un disco, uscivo dal negozio vicino casa con la busta stretta in mano,  a passo svelto tornavo a casa, pulsante in ON sullo stereo, e via a scartare il LongPlaying… quel profumo di disco nuovo mi inebriava mente e anima, come quando riconosci la donna che ami dal suo odore e ad occhi chiusi gli dai tutto te stesso fidandoti completamente… meravigliosamente perso…

Arrivai quindi con qualche anno di ritardo sui JT, cominciai praticamente con il loro 4° album e la formazione era quasi la stessa dal 1967 ma proprio a partire da Aqualung il bassista Jeffrey Hammond, chiamato dal suo vecchio e caro amico di Jan Anderson, andò a sostituire Glen Cornick. Ed è proprio a Jeffrey (a cui per scherzo fu aggiunto un secondo Hammond al cognome) che si scoprì poi che gli furono dedicati tre brani, uno per disco da This Was, Stand Up e Benefit ben prima del suo arrivo nella band.

Aqualung compie quest’anno il mezzo secolo, portato benissimo direi e, se non fosse che il Progressive oggi sia considerato dai più così anacronistico, sarebbe potuto essere stato pubblicato anche qualche anno fa senza sfigurate affatto, anzi! Ho quindi colto l’occasione del 50° compleanno per ascoltare con rinnovata passione quest’opera d’arte del 1971 che, già a partire dalla copertina incuriosisce non poco: è un dipinto di Burton Silverman, fatto ad acquarello,  che lo stesso autore (nato nel 1928 in America) dichiara essere un suo autoritratto e che il furbo Jan prende ad esempio e si esibisce vestendosi in modo molto simile al barbone raffigurato, per cui nell’immaginario collettivo il frontman diventa ‘quello della cover’, il clochard Aqualung. Capelli arruffati e barba lunga non curata unita ad un abbigliamento trasandato con tanto di cappotto strappato, diventano il ‘marchio’ estetico della band che ancora vive in noi oggi. Si dice che le tre opere originarie di Silverman che vengono raffigurate come front cover, interno (la band al completo) e retro copertina (lo stesso barbone seduto sul bordo di un marciapiede con un cane) siano state pagate all’artista americano 1500 dollari e siano oggi di proprietà di un collezionista.

Il disco si sarebbe dovuto intitolare My God ma, a causa di un bootleg uscito in quel periodo con quel nome, la band decise per Aqualung per non inficiare la vendita dell’LP ufficiale. Curiosamente, nonostante Jan Anderson non avesse mai dichiarato che Aqualung fosse un ‘concept album’, la critica lo ha sempre definito tale. Intanto le due facciate vengono intitolate rispettivamente Aqualung (lato A) e My God (lato B) ed i temi sviluppati nel disco effettivamente sono due, nel primo lato, l’argomento trattato si rivolge ad un sentimento di disumanizzazione della società affrontando la compassione ed il disprezzo rivolti verso i propri simili (vedi il barbone in copertina e nel retro) mentre il lato B narra delle ipocrisie della religione e le contraddizioni che l’uomo spesso subisce passivamente senza relazionarsi in modo più sincero verso la stessa, e qui si vada ad osservare l’interno della copertina dove la band viene raffigurata all’interno di una chiesa in atteggiamenti e abbigliamenti non consoni all’ambiente. Dissacrante di certo.

JETHRO TULL si lasciano un po’ indietro il blues suonato nei precedenti album, strizzano l’occhio al rock più duro con riff di chitarra sporcata da distorsori che prima non erano usati con così tanta frequenza, il brano d’apertura Aqualung, lo sancisce a pieno titolo, anche gli assoli chitarristici vengono suonati con il piglio del miglior rockettaro, tanto che anche Jimmy Page, che si trovava nello stesso studio durante le registrazioni del brano (stava incidendo il IV album con gli Zeppelin), ebbe modo di complimentarsi per il lavoro di Martin Barre. La costruzione musicale sostiene in modo perfetto i testi che pare vengano urlati verso il barbone che guarda in modo molesto le ragazzine a passeggio. Emblematico l’urlo ‘Hey Aqualung’ come un rimprovero, una condanna per l’atteggiamento del personaggio.

Anche Cross-eyed Mary tratta lo stesso argomento, qui è una ragazzina (Mary, strabica) che rivolge le sue attenzioni a uomini molto più maturi della sua giovane età, provando a prostituirsi scegliendo con  cura soggetti ricchi e pretendendo salati pagamenti. Ed anche qui la musica viene a sostegno del testo con intrecci di mellotron (riproducendo sezioni di archi) e flauto; questo brano verrà spesso eseguito dal vivo e diventerà, per la sua stessa costruzione melodica, un marchio di fabbrica per la band.

Passo velocemente da Mother goose, dove i flauti soprano e alto si rincorrono con arpeggi di chitarra acustica, ad un brano che, di tutta la produzione dei Jethro Tull, mi sta veramente nel cuore…

Wond’ring aloud, una perla davvero unica, peccato duri poco, troppo poco (in questo periodo la sto ascoltando a ciclo continuo),  appena 1’53” minuti di tenerezza e amore. Racconta di un uomo che al mattino, sveglio dopo una notte accanto alla sua amata donna, sente i profumi della colazione che Lei gli sta preparando. La donna arriva da lui e sparge briciole di pane tostato sul letto, la guarda e dolcemente scuote la testa sorridendo… il testo recita ‘Last night sipped the sunset, my hands in her hair…l’altra notte ho assaporato il tramonto, le mie mani nei suoi capelli, ed ancora ‘And it’s only the giving that makes you what you areEd è solo il donare che ti rende quello che sei. Che altro dire, chitarra acustica con un sognante tappeto al pianoforte con la chitarra di Barre a contrappuntare e sottolineare la magnificenza di un momento di vita che resta indelebile nella storia di chiunque. E’ una ballad degna della migliore produzione mai ascoltata, il brano che più mi colpì all’epoca ed ancora oggi mi tocca profondamente. Nel seguito  troverete una versione ‘long’ di questo brano, vi esorto ad ascoltarlo.

Il lato Aqualung si chiude con Up to me, e qui si ribalta la storia precedente, lei vive un rapporto instabile ma che per fortuna di entrambi finisce sempre bene, perché nonostante tutto lei torna sempre dall’uomo che la rende felice… ‘she’s running up to me’! La matrice è un blues che però sviluppa un particolare colloquio tra percussioni e flauto che sottolineano la relativa leggerezza del brano (come costruzione musicale) pur trattando un argomento non certo poco ‘leggero’.

Siamo al cambio di facciata, lato B intitolato My God, sovverte la logica del rapporto degli uomini con Dio, qui si immagina che l’uomo ha creato Dio per cui tutto è manipolato al contrario. In alto a destra, sul retro della copertina, ci sono 9 punti che dovrebbero chiarire (nelle intenzioni dell’autore) in che modo l’ordine sia sovvertito, e ricorre il tema del disco che viene sviluppato in My God in modo più esplicito esaltando il disprezzo dell’uomo verso i suoi simili. E’ un blues classico che richiama le sonorità di Aqualung, con chitarre belle toste e ritmo trascinante,  così come il blues seguente Hyman 43, dove la chitarra assume un ruolo quasi da voce ‘incazzata’. Infatti l’accordo preso senza spingere le corde sulla tastiera ma suonato col plettro quasi a percussione (la tecnica usata si chiama ‘hacking’), ricorda le urla dei predicatori all’indirizzo dei suoi seguaci. Anche qui il testo fa riferimento ad uno dei classici riti religiosi, siamo in chiesa e viene esposto il cartello ‘Inno 43’, ad indicare che i fedeli sono invitati a cantare appunto l’inno che ad un certo punto recita ‘’…O Padre nell’alto dei cieli, sorridi a tuo figlio quaggiù, che è indaffarato nei suoi giochi di soldi, con la sua donna e la sua pistola…’, ed a chiusura di ogni strofa, si ripete la frase ‘Oh Jesus save me!’.

Slipstream, altra piccola perla (brevissima) suonata con due chitarre acustiche che fungono una da base, arpeggiando l’accompagnamento e l’altra fraseggia con la melodia. Gli archi entrano in un secondo momento, quasi ad imitare il suono dell’acqua che rumoreggia creado l’ultimo vortice, il ‘risucchio’ appunto, qui questa parola viene usata metaforicamente per far riflettere sull’ultimo atto del prete (cameriere di Dio) a cui si dà la mancia prima di ricevere il ‘conto’… il riferimento è alla morte.

Segue uno dei cavalli di battaglia ‘live’ dei JT, quella Locomotive breath che chiude da decenni i concerti di Anderson & Co. e che si apre col pianoforte di Evan per poi racchiudere tutti gli altri strumenti in un crescendo che ormai è storia, e non solo dei Jethro Tull. Ancora la tecnica dell’ hancking sulla chitarra di Barre che accompagna all’ascolto di uno dei migliori assoli di flauto del menestrello di Blackpool.

Siamo all’epilogo, Wind up chiude l’album in modo strepitoso, musicalmente è strutturato in tre parti: quella iniziale con una voce quasi narrante accompagnata dalla chitarra acustica dove pian piano si ascolta  il pianoforte prendere forza fino a quando la voce ritorna ai normali toni sorretta prima dai riff di chitarra elettrica, e poi  seguita da tutto il resto degli strumenti, ed infine chiudersi così come iniziata, con la voce quasi sussurrata. Nel testo la denuncia finale nei confronti delle istituzioni religiose è più esplicito, Il protagonista (lo stesso Anderson?) accusa il cattivo rapporto con i ministri di Dio che parlano in suo nome ma che in realtà l’autore definisce mistificatori e ingannevoli servi di un sistema che lo hanno indottrinato (‘caricato’ come un orologio la domenica a messa) sin da piccolo, dai banchi di scuola, alle lezioni di catechismo. E’ così che il protagonista alla fine si lascia tutto alle spalle, si disfa delle regole e cercherà, da quel momento, un rapporto più vero, sincero e personale con Dio.

Buona musica.

 

(Il tempo passa ma la classe e il valore di certi musicisti e di alcune composizioni musicali restano gli stessi. Di seguito una versione “orchestrale” di Aqualung del 2004, quindi molto più recente, interpretata dallo stesso Anderson accompagnato dalla Neue Philharmonie Frankfurt diretta dal M.o John O’Hara.)

Musicisti:

Ian Anderson, voce, chitarra folk, flauto
Martin Barre, chitarra
John Evan, pianoforte, organo, mellotron
Jeffrey Hammond, basso, flauto dolce, voce
Clive Bunker, batteria, percussioni

Tracklist:

Lato A – Aqualung

Aqualung – 6:31
Cross-Eyed Mary – 4:06
Cheap Day Return – 1:21
Mother Goose – 3:51
Wond’ring Aloud – 1:53
Up To Me – 3:14

Lato B – My God

My God – 7:08
Hymn 43 – 3:14
Slipstream – 1:13
Locomotive Breath – 4:23
Wind Up – 6:01

L'articolo JETHRO TULL | Aqualung proviene da Sound Contest.

]]>
WISHBONE ASH | Live dates https://www.soundcontest.com/wishbone-ash-live-dates/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=wishbone-ash-live-dates Fri, 08 Oct 2021 18:06:45 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51648 Il loro debutto discografico avvenne nel 1970, con un album che portava il loro stesso nome e che conteneva brani che per anni i W.A. avevano portato in giro nei locali e nei concerti. La vena progressive era evidente nella costruzione dei brani, così come i richiami al folk nelle voci, ma la matrice hard la faceva da padrona soprattutto con l’uso delle chitarre che erano diventate il marchio di fabbrica del gruppo.

L'articolo WISHBONE ASH | Live dates proviene da Sound Contest.

]]>
Se oggi ascoltiamo e apprezziamo tanto l’hard rock e l’heavy metal, probabilmente lo dobbiamo in buona parte ai Wishbone Ash, addirittura Steve Harris degli Iron Maiden in un’intervista dichiarò che per capire i loro primi lavori bastava ascoltare ARGUS dei Wishbone Ash… se lo dice lui!

La band originaria si formò verso la metà degli anni 60 in una piccola cittadina del Devon, Torquay in Gran Bretagna dove i fratelli Turner, entrambi chitarristi e con l’aggiunta di Phil Hesketh alla batteria formarono i Torinoes. Solita gavetta, cambi di formazione, nome e città nel corso degli anni li portarono infine all’incontro con Miles Copeland (fratello di Stewart Copeland, batterista prima di Curved Air e poi di Police) manager in erba, che si adoperò per trovare un nuovo chitarrista, visto che Glenn, uno dei due fratelli fondatori della band decise di abbandonare il gruppo. Arrivarono ben due chitarristi Ted Turner (stesso cognome ma nessuna parentela con Martin) e Andy Powell che sarebbero stati, nel corso degli anni a venire, l’anima blues/rock del W.A.

Da quel momento lo show business cominciò a girare nel verso giusto, nel ’69 si fecero notare dal pubblico dei concerti, aprendo gli show ai Ten Years After, Black Sabbath e altri fino a quando un certo Ritchie Blackmore chiarrista dei Deep Purple, li notò una sera che aprirono un loro concerto e li presentò alla MCA Records dove ottennero finalmente un contratto.

Il loro debutto discografico avvenne nel 1970, con un album che portava il loro stesso nome e che conteneva brani che per anni i W.A. avevano portato in giro nei locali e nei concerti. La vena progressive era evidente nella costruzione dei brani, così come i richiami al folk nelle voci, ma la matrice hard la faceva da padrona soprattutto con l’uso delle chitarre che erano diventate il marchio di fabbrica del gruppo. Riuscivano a creare intrecci ritmici senza mai sovrapporsi o darsi fastidio l’un l’altro, e nelle esibizioni dal vivo lo si intuiva chiaramente che entrambi i chitarristi lavoravano insieme per il gruppo e non per mettersi in evidenza a discapito dell’altro.

L’anno successivo arriva nei negozi Pilgrimage, un altro ottimo prodotto che questa volta strizza l’occhio al jazz-rock, i brani strumentali sono più di quelli cantati e il disco arriva alla posizione n. 14 della classifica di vendita in Inghilterra. Durante le registrazioni, negli studi è presente John Lennon a cui era stato raccontato delle notevoli performance di Turner come chitarrista, infatti lo volle con lui per fargli incidere l’assolo presente nel brano Cripled Inside, che verrà incluso poi nell’album Imagine.

Arriviamo al 1972, quando vede la luce il disco forse più apprezzato dei Wishbone, quel ARGUS che tutti citano per indicare ‘l’opera’ della band inglese, e non a caso è quello che vende di più. E’ il periodo dei concept album ed anche questo pare non sfuggire alla regola, nessuno del gruppo conferma ma l’ambientazione da ‘leggende e guerre celtiche’ dei testi, ben supportati da un ritorno più marcato al progressive e dalla bellissima cover prodotta dallo Studio Hipgnosys, porta inevitabilmente a queste conclusioni, peraltro mai smentite ne da Andy Powell ne dagli altri della band.

L’anno seguente segna la prima avvisaglia di un calo d’ispirazione degli autori, non è un buon momento per WISHBONE FOUR (il quarto album che nasce tra episodi sfortunati come il furto di tutta la strumentazione durante un tour in America e conseguente annullamento delle successive date e un ricovero d’urgenza per Martin Turner appena rientrato in Inghilterra) che ricordiamolo, avrebbe almeno dovuto tenere il passo del precedente capolavoro, quell’Argus mai più avvicinato da nessun altro lavoro della band. Intanto la MCA continua a voler sfruttare il momento favorevole per le vendite e preme gli autori affinché si producessero in nuove session per tirar fuori altri dischi.

E’ così che viene pubblicato un doppio live tratto da registrazioni fatte durante un tour del 1973 in Gran Bretagna. Qui ci troviamo il meglio della produzione Wishbone, le chicche sono tutte qui suonate in modo superlativo e la band è al meglio, sezione ritmica possente e precisa, le due chitarre indiscusse regine del palco a rincorrersi tra una nota e un assolo, l’hard qui si sente molto più chiaramente rispetto ai dischi in studio, loro sono soprattutto una ‘live band’. Da segnalare una stupenda versione del brano di apertura del concerto The King Will Come e Throw Down the Sword, altra perla. Una versione da 17 minuti di Phoenix (dal loro disco d’esordio), una psichedelica The Pilgrim (da Pilgrimage) e quasi tutto il secondo lato di Argus riproposto in versione, se possibile, più hard.

Per chiudere, una piccola nota a margine: nel corso degli anni questo disco – LIVE DATES, che raccoglie il meglio della produzione dei W.A. – l’ho acquistato tre volte… l’ultima tre giorni fa, invogliato da una recensione di Argus che mi ha fatto tornare la voglia di riascoltarlo.

Buona musica a tutti

Tracks:

The King Will Come
Warrior
Throw Down The Sword
Rock ‘n Roll Widow
Ballad Of The Beacon
Baby What You Want Me To Do
The Pilgrim
Blowin’ Free
Jailbait
Lady Whisky
Phoenix

 

L'articolo WISHBONE ASH | Live dates proviene da Sound Contest.

]]>
RENATO CAROSONE | Come, nel dopoguerra, un napoletano geniale conquistò il mondo con la sua musica https://www.soundcontest.com/renato-carosone-come-nel-dopoguerra-un-napoletano-geniale-conquistava-il-mondo-con-la-sua-musica/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=renato-carosone-come-nel-dopoguerra-un-napoletano-geniale-conquistava-il-mondo-con-la-sua-musica Thu, 18 Mar 2021 12:58:13 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=48834 Non si può non ricordare, dopo cento anni dalla nascita e a vent’anni dalla sua scomparsa, quel Renato Carusone che poi, probabilmente a causa dei frequentissimi errori di trascrizione anagrafica dell’epoca, al secolo fu meglio conosciuto come Renato Carosone. Resta unico e ineguagliato il ruolo di caposaldo e di precursore, l’atteggiamento visionario, la capacità di […]

L'articolo RENATO CAROSONE | Come, nel dopoguerra, un napoletano geniale conquistò il mondo con la sua musica proviene da Sound Contest.

]]>
Non si può non ricordare, dopo cento anni dalla nascita e a vent’anni dalla sua scomparsa, quel Renato Carusone che poi, probabilmente a causa dei frequentissimi errori di trascrizione anagrafica dell’epoca, al secolo fu meglio conosciuto come Renato Carosone. Resta unico e ineguagliato il ruolo di caposaldo e di precursore, l’atteggiamento visionario, la capacità di dare una svolta e una veste nuova alla canzone napoletana, che rappresentò la sua figura nello spianare la strada all’evoluzione della musica in Italia dopo il ventennio oscuro e la guerra che ne era seguita.
Ancora una volta, questa grande rivoluzione partiva da Napoli, dove Renato era nato nel 1920.

Aveva dimostrato prestissimo interesse e predisposizione per la musica, la sua prima maestra di pianoforte fu la madre stessa che, purtroppo, morì prematuramente. Il padre volle però che continuasse i suoi studi e così fu affidato a diversi maestri dell’epoca e così, a soli quattordici anni, ebbe la sua prima scrittura nel mondo dello spettacolo.

Dopo essersi diplomato in pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, a soli diciassette anni, si imbarcò verso l’Africa del nord, e sbarcò a Massaua, in Eritrea, con un’improbabile compagnia teatrale. Si spostò poi ad Addis Abeba, dove rimase a suonare fino al 1940, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e fu chiamato alle armi e inviato al fronte nella Somalia Italiana.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’esercito degli Stati Uniti, per mantenere alto il morale dei suoi soldati, inviava presso i propri centri di ricreazione grossi quantitativi di fonografi e di un nuovo tipo di dischi, chiamati V-Disc (dischi della vittoria) fabbricati in vinile con una nuova tecnologia che avrebbe poi aperto la strada alla diffusione di massa della musica nel dopoguerra. Sui V-Disc erano incise, appositamente per i soldati al fronte, canzoni e musica ballabile e da ascolto dai maggiori musicisti e cantanti americani. Quindi, attraverso le frequentazioni coi soldati statunitensi, si andavano diffondendo generi musicali “nuovi”, lo swing, il blues, il jazz, il boogie-woogie, il cha cha cha, il rock and roll. Furono probabilmente le migliori opportunità che Renato – come un po’ tutti i musicisti suoi contemporanei che poi si sarebbero avvicinati al jazz – ebbe per conoscere più approfonditamente la musica di George Gershwin, Cole Porter, Duke Ellington, che anche Carosone presto acquisì e fece sua.

Finita la guerra, Carosone tornò in Eritrea, dove divenne direttore artistico di un locale notturno ad Asmara ed ebbe così modo di sperimentare e, grazie al suo talento, mettere in pratica con successo tutto quanto aveva imparato di quei nuovi generi musicali. Nel 1946 tornò in Italia, dove passò qualche anno tra Roma e Napoli, con incerte fortune, finché non fu coinvolto nell’inaugurazione un nuovo locale a Napoli, lo Shaker Club. Per quella serata intendeva formare una nuova band.

Le fortune di Renato Carosone sono indubbiamente riconducibili al suo talento, alle sue grandissime capacità di musicista e di showman, alle sue doti di band leader, ma non possono in nessun modo prescindere dall’affiancamento di altri due grandissimi talenti artistici: il chitarrista olandese Peter Van Wood e il napoletanissimo batterista Gennaro Di Giacomo, detto Gegè, classe 1918, nipote di Salvatore, famosissimo poeta napoletano.
Il Trio che si formerà per l’inaugurazione dello Shaker Club di Napoli rappresenterà il nocciolo delle future affermazioni di Carosone e toccherà l’apice del successo attraverso una di quelle rare alchimie artistiche che, ogni tanto, si verificano in ogni ambito delle espressioni umane.

Peter Van Wood
Peter Van Wood

Come Carosone era divenuto nel tempo un pianista capace di notevoli virtuosismi; anche Van Wood era un chitarrista capace di virtuosismi all’epoca non comuni e probabilmente fu uno dei primi in assoluto a introdurre l’uso delle pedaliere per chitarra con effetti elettronici. «Peter» – racconta nella sua biografia lo stesso Carosone – «era piacente, biondo, aveva un’aria stravagante e cantava in italiano, spagnolo, francese e inglese…».  La sua presenza nel gruppo diede luogo a una forma di “globalizzazione” grazie alla quale la napoletanità di Carosone ebbe un sorprendente successo anche in Olanda, negli altri paesi bassi e in molti altri paesi europei.

Gegè Di Giacomo
Gegè Di Giacomo

Gegè di Giacomo, più che un semplice batterista, era un fantasista delle percussioni. Un aneddoto narra che si presentò al provino di Carosone e Van Wood all’Hotel Miramare di Napoli senza la batteria e che avesse dimostrato il suo talento suonando con le sole bacchette su qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro, i tavolini, dei bicchieri parzialmente riempiti in modo da ricavarne tonalità diverse, le gambe delle sedie e quant’altro. Da questa prestazione fantasiosa e spiritosa Carosone capì subito di aver incontrato “il personaggio” singolare di cui aveva bisogno, che sarebbe diventato quel preziosissimo collaboratore e braccio destro a cui non avrebbe potuto rinunciare. «Gegè tu servi a me e io servo a te…» – si dicevano l’un l’altro – «…Senza di te io non posso fare niente e tu non puoi fare niente senza me…»

Alcuni anni dopo Van Wood lasciò il gruppo e partì verso l’America per cercare nuovi stimoli per la propria carriera. Il gruppo di Carosone si allargò con l’alternarsi di diversi nuovi elementi tra cui vale la pena di ricordare, nel 1953, nientemeno che il chitarrista jazz Franco Cerri (!); successivamente svariati musicisti, sempre valentissimi, si alternarono in varie formazioni.

Diversi furono i primati di Renato Carosone e i suoi compagni in quegli anni; era il dopoguerra, la gente aveva voglia di dimenticare le tragedie del passato e di ricostruire un presente e un futuro aspirando al benessere e desiderava trascorrere qualche attimo di spensieratezza.
Con il loro ottimismo e la loro fantasia artistica Renato e i suoi musicisti furono capaci di un primo e inedito esperimento di “fusion”, la melodia classica napoletana – non dimentichiamo che, a quell’epoca, “Canzone Napoletana” era sinonimo di “Canzone Italiana” –  con tutto il bagaglio di esperienze acquisite negli anni dell’immediato dopoguerra, dalle influenze etniche “africane” ai ritmi importati dalle Americhe, lo swing, il boogie, il blues, la rumba e il cha cha cha.
Secondo il noto attore e regista americano John Turturro, da sempre innamorato di Napoli e di tutto quanto la riguarda, in particolare dal punto di vista artistico, Carosone è stato il primo “rapper” in assoluto. Difficile dargli torto.
Furono comunque queste le chiavi del successo e delle innovazioni introdott dall’originalità della ricetta di Carosone & Gegè, condita sapientemente da un pizzico di ironia, scanzonata e talvolta irriverente, sempre associata a quel particolare sorriso ammiccante a cui nessuno avrebbe saputo o potuto rimproverare nulla.
Quello stesso sorriso scanzonato, a cui sempre tutto è permesso, ancora oggi lo possiamo ritrovare sulle labbra di due suoi affezionatissimi seguaci, Renzo Arbore e Rosario Fiorello.
Il pubblico veniva “caricato” al massimo dal “grido di battaglia” di Gegè “CantaNapoli…” e partecipava attivamente al concerto che si presentava, nel suo complesso, come uno spettacolo completo.
Pare infatti che una sera a Milano, durante un concerto al Caprice, mentre lavoravano come sempre abilmente al coinvolgimento del pubblico presente, durante l’introduzione del brano La Pansè, Gegè abbia improvvisamente gridato: “Canta Napoli… Napoli in fiore…”.
Da quel momento anticipava ogni brano, bollandolo con un riferimento al senso della canzone: “…Napoli matrimoniale…” per T’è Piaciuta, “…Napoli in farmacia…” per Pigliate ‘Na Pastiglia, “…Napoli petrolifera…” per Caravan Petrol, e così via. Gegè era un vero e proprio “personaggio” più che singolare.
Non sarebbe da escludere che il grande Totò che, negli stessi anni, rivestì per il cinema leggero e di intrattenimento lo stesso ruolo ricostruttivo e rivoluzionario che Carosone e i suoi ebbero nella musica, si sia talvolta ispirato a Gegè nella creazione di qualche suo personaggio esilarante.

Si dovrà attendere, negli anni settanta, la “Neapolitan Power” di James Senese, di Tullio De Piscopo, e subito dopo di Pino Daniele, che è stato considerato una sorta di “erede” naturale del suo spirito innovativo, di Tony Esposito, di Joe Amoruso e Rino Zurzolo, per assistere a un rimescolamento altrettanto rivoluzionario della musica napoletana, con echi e ripercussioni altrettanto incisivi e riconosciuti in tutto il mondo.

Ma tornando all’effetto “novità” del fenomeno Carosone, inquadrato nel contesto di rinascita culturale di quegli anni, proprio il suo gruppo fu protagonista di una serie di primati a testimonianza di tutto il prestigio e il gradimento che era riuscito a conquistarsi in ambito artistico.
Fu il primo ad apparire, il 3 gennaio 1954, a poche ore dai primi vagiti della nascente Rai – Radio Televisione Italiana, in una trasmissione intitolata L’orchestra delle quindici.
Fu il primo dei musicisti “leggeri”, dopo una lunga tournée in Europa, a Cuba e in Brasile, ad essere invitato alla Carnegie Hall di New York dove, mai prima di loro, si erano esibiti soltanto musicisti classici; nel 1960 furono invitati in America al prestigioso Ed Sullivan Show e furono il terzo gruppo italiano ad esibirsi alla TV americana dopo Nilla Pizzi e Domenico Modugno.
Nel 1975 Carosone prenderà parte a L’Ospite delle Due, il primo talk-show della televisione italiana ideato e condotto da Luciano Rispoli, in cui  spiegherà i motivi del suo inatteso ritiro dalle scene, di cui diremo dopo.

Tra il 1954 e il 1958 furono incisi i Carosello Carosone, un serie di 7 dischi che raccoglievano tutti i maggiori successi che, prima il Trio e poi il Sestetto di Carosone, avevano collezionato in quegli anni, tra composizioni originali e rivisitazioni di brani già noti.
Tra le composizioni originali ricordiamo Maruzzella, La Pansè, T’è Piaciuta, ‘O Russo E ‘A Rossa, e Pianofortissimo, che metteva in chiara evidenza tutto il virtuosismo pianistico dovuto alla formazione classica di Renato.
Menzione a parte merita Tu Vuò Fà L’Americano, uno dei successi più conosciuti, nato dall’incontro casuale con il poeta Nicola Salerno, in arte Nisa, alla casa discografica Ricordi di cui fu tramite il discografico Mariano Rapetti, padre di quel Giulio divenuto poi famoso come Mogol. Salerno divenne un collaboratore assiduo e un altro degli elementi fondamentali del successo di Carosone. Del duo Nisa-Carosone Pigliate ‘Na Pastiglia e, nel 1957, Torero, che fu  tradotta in diverse lingue e rimase per alcune settimane ai primi posti delle classifiche americane.

Tra le rivisitazioni ebbero grande successo Malafemmena, del grande Antonio De Curtis in arte Totò, Scapricciatiello, Anema e Core, La Donna Riccia di Domenico Modugno, ‘E Spingole Frangese, scritta da Salvatore Di Giacomo, Lazzarella e Io, Mammeta e Tu di Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno, magistralmente interpretata da Gegè Di Giacomo, Piccolissima serenata, ‘A sunnambula, ‘A casciaforte.

A cavallo tra i brani originali e quelli rivisitati ci furono poi delle composizioni “ispirate”, come  Giuvanne Cu’ ‘A Chitarra, che altro non era che una scrittura, in chiave ironica e in dialetto napoletano, di una canzone ispirara a Johnny Guitar, successo d’oltreoceano. E ancora, a proposito della sua graffiante  ironia, stravolse con il suo stile irriverente, E La Barca Tornò Sola, una canzone tristissima e struggente portata al successo a Sanremo da Gino Latilla, trasformandola, con la complicità dell’insostituibile Gegè Di Giacomo, in una irresistibile canzone comica. Anche Charlie Chaplin entrò nel mirino degli stravolgimenti di Carosone con un brano ispirato alla colonna sonora di Luci della ribalta che intitolò Eternamente, altrimenti conosciuto come Arlecchinata.

A un certo punto però, dopo aver creato una casa discografica con annesso un proprio studio di registrazione a Milano ed aver raggiunto l’apice del successo, avvenne un fatto inatteso: alla fine del 1959 Carosone annunciò pubblicamente la sua decisione di ritirarsi dalle scene. Completò i suoi impegni, fin verso la metà del 1960, e poi si ritirò con la moglie nei pressi di Bergamo dove fondò una piccola casa discografica, ma non smise di comporre canzoni con Nisa e si dedicò alla pittura, che era un’altra delle sue passioni.

Il suo affezionatissimo pubblico rimase profondamente dispiaciuto e deluso da questa decisione e dovettero passare ben quindici anni prima che Renato cedesse all’invito di Sergio Bernardini accettando una serata tutta dedicata a lui alla Bussola, con un’orchestra di diciannove musicisti, riprese televisive della Rai e registrazione in contemporanea di un nuovo disco “live”.

Nel corso della sua partecipazione a L’Ospite Delle Due, di Luciano Rispoli, Carosone spiegherà poi che, durante la sua permanenza in America alla fine degli anni ‘50, osservando l’andamento del mercato musicale, dei gusti del pubblico e l’anteprima della moda degli urlatori, aveva presagito come queste novità si sarebbero presto affermate anche in Italia. Avendo quindi lui già raggiunto l’apice del successo, prima di avviarsi sulla via del declino a causa del mutamento dei gusti e delle attenzioni del pubblico, gli era sembrato più dignitoso e appagante chiudere in bellezza abbandonando volontariamente le scene.

Ma il suo ritorno dimostrava la permanenza di uno zoccolo duro di ammiratori che, dopo essere rimasti orfani per anni della sua presenza, del suo stile e del suo humor, continuavano a seguirlo e a stimarlo.
Ci furono per Renato, seppure in tono minore rispetto agli anni d’oro, nuove canzoni, nuovi dischi, nuove tournée in Italia, in America, al Madison Square Garden di New York con il patrocinio di Adriano Aragozzini, in Sudamerica, in Canada, dove fu ospite dell’Orchestra Filarmonica di Toronto, una serie di ospitate, partecipazioni e collaborazioni in diverse trasmissioni televisive e una partecipazione nel 1989 al Festival di Sanremo con una canzone scritta per lui da Claudio Mattone, ‘Na Canzuncella Doce Doce.

Seguirono una mostra della sua pittura e, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, uno spettacolo in suo omaggio al Teatro Mercadante di Napoli, a cui Carosone partecipò attivamente dopo essersi ripreso da un lungo periodo di malattia dovuto ad un aneurisma celebrale. Ospite della serata arrivò  direttamente dall’America, a suonare con Carosone ‘O Sole Mio e Tea For Two, nientemeno che il vibrafonista Lionel Hampton, anch’egli ormai ottantaseienne.

Nel 1996 Carosone ricevette il Premio Tenco quale riconoscimento per l’innovazione portata, grazie alla sua produzione musicale, alla canzone napoletana, e tenne un ultimo concerto pubblico a Piazza del Plebiscito, a Napoli, nel 1998.

Scrisse poi, assieme al giornalista Federico Vacalebre, Un Americano a Napoli, la propria autobiografia che pubblicò nel 2000.

Colpito da enfisema polmonare, il 20 maggio 2001, nella sua casa di Roma, Renato Carosone morì nel sonno, lasciando un grande vuoto ma, al tempo stesso, un segno indelebile nel panorama artistico della fine del ‘900, con la sua musica che riesce a mantenere la sua attualità pressoché intatta.

Per il lungo sodalizio artistico e per il profondo legame di amicizia che legò Carosone a Gegè Di Giacomo, protagonista a pari merito di tutti i successi degli anno d’oro, è d’obbligo ricordare che quest’ultimo, costretto su una sedia a rotelle, a causa del suo stato di salute precario, e colpito da profonda depressione, sebbene profondamente addolorato per la scomparsa di Renato, non poté partecipare ai funerali.
Gegè ricevette nel 2003 dalla Regione Campania il Premio Carosone e rimase a vivere nella sua modesta casa di via Poggioreale a Napoli fino alla sua morte, avvenuta l’1 aprile 2005, a ottantasette anni.

(Ph courtesy of Augusto De Luca)

L'articolo RENATO CAROSONE | Come, nel dopoguerra, un napoletano geniale conquistò il mondo con la sua musica proviene da Sound Contest.

]]>
NINI BARDANZELLU | Il mestiere di Concert Manager https://www.soundcontest.com/nini-bardanzellu-il-mestiere-di-concert-manager/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=nini-bardanzellu-il-mestiere-di-concert-manager Tue, 02 Mar 2021 12:32:05 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51081 A quasi vent’anni dalla sua scomparsa avvenuta nel 2003, è doveroso ricordare la figura di Giovanna Maria (‘Nini’) Bardanzellu, per molti anni impegnata nell’organizzazione di eventi musicali e teatrali in Italia e all’estero.   Nata da genitori sardi a Torino il 18 dicembre del 1926, poliglotta (parlava correntemente, oltre la madrelingua italiana, francese, inglese, tedesco […]

L'articolo NINI BARDANZELLU | Il mestiere di Concert Manager proviene da Sound Contest.

]]>
A quasi vent’anni dalla sua scomparsa avvenuta nel 2003, è doveroso ricordare la figura di Giovanna Maria (‘Nini’) Bardanzellu, per molti anni impegnata nell’organizzazione di eventi musicali e teatrali in Italia e all’estero.

 

Nata da genitori sardi a Torino il 18 dicembre del 1926, poliglotta (parlava correntemente, oltre la madrelingua italiana, francese, inglese, tedesco e russo) conseguì il diploma in pianoforte al Conservatorio della sua città, allora diretto dal Maestro Ludovico Rocco Micucci. Nel 1953 insieme con Emy Erede Moresco, (moglie del celebre direttore d’orchestra del Metropolitan di New York Alberto Erede), la Bardanzellu fondò la Società ORIA, “Organizzazione Rapporti Internazionali Artistici”, con sede a Torino e uffici a Milano e Palermo.

Nini Bardanzellu era una musicista e musicologa di ottimo livello, che perseguiva la sua professionalità con passione e competenza. Cresciuta presso la scuola del Maestro Sandro Fuga e della pianista Lidia Furrer, amava ogni genere di buona musica, non solo classica e sinfonica. Sapeva riconoscere dopo l’ascolto di poche note, il talento dei giovani musicisti, che aiutava ad affermarsi in carriera.

Amava molto Bach (‘l’essere’), Mozart (‘l’accadere’), Beethoven (‘il divenire’) e Vivaldi (‘la freschezza’). Suonava, e soprattutto organizzava, concerti di musica d’avanguardia per opere a firma di Shostacovich, Shönberg, Strawinsky ma anche concerti di jazz (Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Billie Holiday). Nell’alveo della tradizione la Bardanzellu professionalmente ebbe altresì a che fare con le rappresentazioni di opere di compositori russi come Ciaikovski, Prokofiev e Scriabin.

Fu proprio Nini Bardanzellu a portare per la prima volta in Italia celebri opere come “Porgy and Bess” di George Gershwin e artisti del calibro di Evgheni Mrawinski insieme all’Orchestra Filarmonica di Leningrado, Laurence Olivier e Vivien Leigh ed inoltre la danzatrice indiana Mrinalini Sarabhai, il balletto di Igor Moisseev, il mimo Marcel Marceau e tanti altri. Fra i molti artisti rappresentati, prediligeva Sviatoslav Richter, uno dei più grandi pianisti del nostro tempo, che a Palermo era “di casa”. Dopo le sue esibizioni Richter dietro le quinte, desiderava che Nini gli stesse accanto, spesso per proteggerlo dai troppi ammiratori che richiedevano autografi.

A Palermo, una circostanza curiosa resterà indelebile nel ricordo di molti: durante la rappresentazione dell’Opera di Pechino, oltre 40 teatranti chiesero di poter consumare, durante l’intervallo, tre uova ciascuno. Recepito il messaggio (non previsto in contratto) Nini sparì dal Teatro Massimo, dove si svolgeva lo spettacolo. Ritornò, trafelata dalla frenetica ricerca fra ristoranti e alberghi della città, con una borsa contenente 200 uova. Dal palcoscenico lei stessa disse al pubblico, impaziente per l’attesa: “Scusate per il ritardo. Non è stato facile trovare a quest’ora tante uova nei pochi negozi della città ancora aperti”. Il malumore per il ritardo del secondo tempo si trasformò in un caloroso applauso del pubblico e degli stessi teatranti.

Questo era il carattere di Nini: risolvere gli imprevisti tecnici e organizzativi degli spettacoli senza lunghi discorsi, con soluzioni concrete e immediate.

La Bardanzellu proseguì la sua attività di concert manager, con la collaborazione di una valida collega: Gabriella Giordano, fin quando un’infausta legge nazionale vietò l’esercizio della mediazione artistica. Continuò a titolo gratuito (questo non era proibito) la collaborazione con il Teatro Massimo e il Teatro Biondo di Palermo nonché con l’Associazione Amici della Musica, all’epoca sotto la direzione artistica di Amedeo Gibilaro ed in seguito del barone Francesco Agnello.

Nel frattempo, dal matrimonio con l’economista e docente universitario Gabriele Morello erano nati due figli: Daniele e Chiara cosicché la gestione familiare divenne per lei prioritaria rispetto agli impegni professionali. “Con la sua scomparsa – scrisse il Giornale di Sicilia del 28 gennaio 2003 in un articolo dal titolo: ‘Nini Morello, una vita dedicata a Palermo e al risveglio culturale’ – tramontava una parte di quella città colta, che costituiva un vero crocevia della cultura musicale e non solo”. La rimpiangono ancora i familiari e i molti amici, italiani e stranieri, che ricordano la sua intelligenza, il suo talento artistico e il suo impegno professionale.

Gabriele Morello

 

L'articolo NINI BARDANZELLU | Il mestiere di Concert Manager proviene da Sound Contest.

]]>
Bone Records | I Dischi di Ossa https://www.soundcontest.com/bone-records-i-dischi-di-ossa/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=bone-records-i-dischi-di-ossa Sat, 23 Jan 2021 20:02:49 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=47905 Era il lontano 1877 quando Thomas Alva Edison tentava i primi esperimenti di fonografo, con alla base un cilindro di ottone, rivestito da un sottile foglio di stagnola su cui, con una rudimentale puntina, all’interno di appositi solchi, venivano incisi dei suoni che, successivamente, potevano essere riprodotti un certo numero di volte. Ad esso seguì […]

L'articolo Bone Records | I Dischi di Ossa proviene da Sound Contest.

]]>
Era il lontano 1877 quando Thomas Alva Edison tentava i primi esperimenti di fonografo, con alla base un cilindro di ottone, rivestito da un sottile foglio di stagnola su cui, con una rudimentale puntina, all’interno di appositi solchi, venivano incisi dei suoni che, successivamente, potevano essere riprodotti un certo numero di volte.
Ad esso seguì il grafofono, perfezionato da Chichester Bell e Summer Tainter, dove la stagnola era sostituita da uno strato di cera.

Il disco fonografico, diretto successore a seguito di una lunga serie di perfezionamenti di quella prima geniale idea, dapprima in cartone rivestito di gommalacca poi in vinile, è stato uno dei primi supporti che permettesse la registrazione e successivamente la divulgazione e la riproduzione ripetitiva dei suoni e, quindi della musica.
Da quel momento c’è stato un crescendo continuo del successo del fonografo e del disco, che continuavano a evolversi nel tempo.

C’erano però luoghi, situazioni politiche e sociali, e regimi dittatoriali nei quali la diffusione della musica, che non fosse di autori controllati e approvati dal regime, non era possibile ed era anzi severamente vietata.

Già in Italia, durante il ventennio fascista, il concetto di “sovranismo” mieteva vittime, la libera circolazione della musica straniera – in primis quella americana – era vietata ed era perfino vietato chiamare gli artisti non italiani col proprio nome.
Tutti sanno che i musicisti, per non farsi scoprire, dovevano chiamare Louis Armstrong “Luigi Braccioforte”.
E’ singolare sottolineare che, successivamente, il figlio di chi aveva voluto tanta repressione, sarebbe diventato del dopoguerra quel Romano Mussolini, riconosciuto in tutto il mondo come uno dei più grandi jazzisti del panorama italiano.
Così mentre in altri paesi, come in Francia, si sviluppava un proficuo scambio culturale, ad esempio nell’ambito del jazz, l’Italia rimaneva nettamente indietro ma, analoghi fenomeni di repressione della cultura nella sua più ampia accezione, si verificarono in Spagna fino al 1975, nella Germania nazista, col rogo dei libri indesiderati dal regime e, immancabilmente, nella Russia Sovietica durante tutto il periodo della “Guerra Fredda”.
I regimi totalitari hanno sempre cercato di ostacolare la libera circolazione del pensiero, nel timore che essa potesse veicolare messaggi e progetti di ribellione e/o di riscatto.
Soprattutto la musica, i testi delle canzoni, gli scenari da essa rappresentati in lingue ovviamente straniere e quindi, per la maggior parte, incomprensibili, potevano divenire veicolo di ribellione e cospirazioni ma, a dispetto di tutte le repressioni – in Italia come in Germania, in Grecia, in Spagna ed in tutti i paesi oppressi dalle dittature, il pensiero non si è mai fermato ed ha continuato sempre a circolare.

Proprio nei giorni nostri, che vede il rifiorire una nuova stagione di successo e di attenzione per il disco in vinile, mandato in soffitta prima dall’avvento del CD e poi della Musica Digitale via web, torna alla luce una vecchia storia, dai più dimenticata e comunque scarsamente conosciuta che vale la pena di ricordare: quella dei Bone Records.

Negli anni del dopoguerra c’era un grande fermento musicale mondiale, circolava musica nuova proveniente dall’America, erano gli anni d’oro del Rock’ n’ Roll, del Jazz e del Blues che si diffondevano in tutta l’Europa post bellica.

Così nei primissimi anni 50, in un negozio di dischi di Leningrado, Boris Tajgin e Ruslan Bogoslovskij, spinti dall’ingegno che notoriamente si sviluppa nei momenti di peggiore privazione, studiavano un sistema singolare per aggirare il problema del proibizionismo e fare circolare, almeno fino agli anni ottanta, la cultura musicale proibita in Russia aspettando la fine del regime sovietico e della Guerra Fredda.

Avevano scoperto le radiografie non più utili che venivano gettate via negli ospedali, un rifiuto molto diffuso, e quindi molto “economico” e disponibile, ed avevano quindi costruito un’apposita apparecchiatura che permetteva di copiare i dischi che riuscivano a procurarsi clandestinamente  su queste vecchie radiografie, ritagliate in forma circolare e forate al centro con una cicca di sigaretta.

Erano nati dei nuovi supporti musicali, detti in russo “Rentgenizdat” oppure “Rëbra”, i “Bone Records” o ancora “musica” oppure “dischi” delle “ossa” o delle “costole” o dei “raggi X”.
Comunque li si voglia chiamare, erano economici, flessibili, quindi si potevano nascondere e trasportare facilmente, costavano – e duravano anche – pochissimo, ma erano ricercatissimi e anche alquanto inquietanti, perché rimanevano visibili in trasparenza i lineamenti degli organi umani interni e delle ossa.

Naturalmente il regime si accorse del traffico e scoprì gli autori del raggiro, Bogoslowskij fu spesso ospite delle prigioni di stato, ma ormai il sistema era conosciuto e diffuso, anche in altri paesi sotto l’egida del regime sovietico, per cui non fu praticamente mai possibile fermarlo.

Su essi trovarono ospitalità clandestina, e circolarono in territorio ostile, in maniera via via sempre più ampia, i Rolling Stones e i Beatles, Elvis Presley come i Pink Floyd, Miles Davis e Charlie Parker, Duke Ellington ma anche molta altra musica, sia di autori russi malvisti e perseguitati dal “regime” che di altri musicisti proveniente da ogni parte del mondo. Tutto questo anche grazie all’aiuto e alla solidarietà di viaggiatori e mercanti “compiacenti”, che collaboravano attivamente alla diffusione degli originali, provenienti da ogni parte del mondo.

Una storia piccola – forse neanche tanto – ma certamente poco conosciuta e che merita la dovuta attenzione; certamente l’ennesima dimostrazione, semmai ce ne fosse bisogno, che la forza della cultura, delle idee e dell’ingegno non può essere confinata da nessuna dittatura.


 

 

Video & Images: Courtesy of the web

L'articolo Bone Records | I Dischi di Ossa proviene da Sound Contest.

]]>
JOE AMORUSO | Accordati Con Me – Le Alchimie Della Musica https://www.soundcontest.com/accordati-con-me-le-alchimie-della-musica/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=accordati-con-me-le-alchimie-della-musica Mon, 30 Mar 2020 17:02:53 +0000 http://www.soundcontest.com/?post_type=speciali&p=23934 Sento di ricordare a modo mio la scomparsa del grande Joe Amoruso riproponendo la recensione di “Accordati Con Me – Le Alchimie Della Musica”, un suo libro+CD, scritto nel  2005 per la collana NoteInedite – Sigma Libri, in cui emergono prepotentemente le doti di umanità, la poesia e il lirismo che si sono costantemente intrecciati […]

L'articolo JOE AMORUSO | Accordati Con Me – Le Alchimie Della Musica proviene da Sound Contest.

]]>
Sento di ricordare a modo mio la scomparsa del grande Joe Amoruso riproponendo la recensione di “Accordati Con Me – Le Alchimie Della Musica”, un suo libro+CD, scritto nel  2005 per la collana NoteInedite – Sigma Libri, in cui emergono prepotentemente le doti di umanità, la poesia e il lirismo che si sono costantemente intrecciati alla sua musica nel corso della sua vita e della sua produzione artistica.   Auspico anche fortemente che questo libro+CD, che ad oggi mi risulta introvabile in commercio, possa essere oggetto di attenzione da parte dell’Editore Sigma Libri per una ristampa, che incontrerebbe certamente l’attenzione e il gradimento dei tantissimi estimatori di questo impareggiabile artista.

Il nome di Joe Amoruso, pianista, tastierista e compositore della scuola jazzistica napoletana, certamente non Ha bisogno di alcuna particolare presentazione. Solo per qualche lettore più distratto, ricordiamo che è stato uno dei collaboratori della prima ora – a nostro avviso componente fondamentale – all’epoca dei primi successi di Pino Daniele.

Da allora tanta musica e tanta storia sono passate, ciascuno ha percorso la propria strada, ciascuno ha conseguito le proprie soddisfazioni ed i propri successi nella circostanze appropriate, ed oggi il nostro Joe ha pensato bene di fermarsi un attimo a riflettere e di fare un bilancio di questa prima ventina d’anni trascorsi nel mondo della musica da professionista.

E lo fa in un modo diverso, accompagnando alla musica, che già sappiamo essergli particolarmente congeniale, un libro, Accordati con me. Le alchimie della musica, inserito nella collana NoteInedite edito dalla Sigma Libri del Gruppo Simone. Nel libro Joe racconta quelli che lui stesso definisce “i suoi appunti”, i ricordi e le sensazioni che hanno ruotato e sono in qualche modo entrati a far parte della “sua” musica, costituendone l’aspetto spirituale, l’essenza più interiore, l’animo più profondo.

A suo modo, quindi, ci svela aspetti impensabili ed inediti di quel suo mondo fantastico, a tratti incantato, in cui prendono forma le sue composizioni; quella che lui stesso definisce “l’alchimia”, termine che da solo induce all’esoterismo, alle sensazioni trascendentali fino al paranormale, ai confini tra sogno e realtà, alla spiritualità, antitesi pura a tanti falsi tecnicismi musicali, studiati a tavolino per realizzare facili guadagni impressionando la parte più superficiale e massificata del pubblico. Pur sapendo che ogni musicista possiede un proprio mondo fantastico interiore, ora che Joe ha dischiuso per noi le porte del suo, ci scopriamo favorevolmente sorpresi e comprendiamo subito che, sarebbe stato francamente difficile, se non impossibile, descrivercelo se non accompagnando la forza della parola a quella della musica.

Sono tanti gli aneddoti che ci racconta. Di un metodo per calcolare, secondo precisi calcoli astrologici legati alla data ed al luogo di nascita di ciascuno di noi, progressioni numeriche che, riportate in scale musicali, rappresentano la musica personale di ognuno di noi; ogni musica, a sua volta, può essere intrecciata con quella di altri per riscontrare le affinità tra le persone. Oppure di un pianoforte scordato, impossibile da suonare, col quale, grazie alla forza del coinvolgimento delle persone presenti, era riuscito a cavare comunque delle buone note ed impressionato favorevolmente i suoi ascoltatori. Si scoprono così anche gli aspetti umani più interiori di Joe, quelli di una persona semplice, un antidivo, che preferisce la semplicità ed i rapporti sinceri e spontanei ai freddi ed inutili formalismi e che ci propone così la sua visione della musica, del canto, degli accordi, della composizione e dell’improvvisazione; ce li racconta e ce li spiega associandoli a mille altre espressioni umane, dalla magia alla filosofia, dall’amore alla pittura, all’astrologia ed all’esoterismo.

E’ talvolta sorprendente scoprire le affinità stilistiche che si possono riscontrare tra il modo di fare musica di un artista ed il suo modo di scrivere; ascoltando la musica che Joe Amoruso ci propone nel CD allegato al libro si ha la sensazione di attraversare un mondo onirico, impalpabile ed immateriale; le note non sembrano neppure seguire un filo prestabilito ma pare siano suonate all’impronta.

In lui sono uniti un fine esecutore ed un attento ascoltatore, finemente variegati; una mano che, quasi da sola, sa cosa fare, quali tasti del piano toccare affinché essi accendano quelli dell’anima, ed un orecchio che sa ascoltare con attenzione ciò che la mano esegue, compiacendosene e suggerendo mille possibili evoluzioni, tra le quali la mano sceglie come proseguire nel sogno… e così via fino alla fine.

 

Musicisti:

Joe Amoruso, piano solo
Antonio Onorato, guitar (brano 04.)

Brani:

01. J & M part 1
02. J & M part 2
03. Salmodia
04. The gardener
05. Live ad Alberobello

Link:

Edizioni Simone

L'articolo JOE AMORUSO | Accordati Con Me – Le Alchimie Della Musica proviene da Sound Contest.

]]>
Sui 70 anni del Macca https://www.soundcontest.com/sui-70-anni-del-macca/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=sui-70-anni-del-macca Mon, 18 Jun 2012 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/sui-70-anni-del-macca/ Considerazioni sparse sul compleanno di uno dei principali artisti della musica popolare relativamente al dopoguerra sono quasi doverose… Si’, si’, lo so che per i “puristi”, gli amanti del rock inteso quasi come un luogo dello spirito ed una forma sonora purissima nel suo anelito alla liberta’ ed alla ribellione, il Beatle piu’ affascinante e […]

L'articolo Sui 70 anni del Macca proviene da Sound Contest.

]]>
Considerazioni sparse sul compleanno di uno dei principali artisti della musica popolare relativamente al dopoguerra sono quasi doverose…


Si’, si’, lo so che per i “puristi”, gli amanti del rock inteso quasi come un luogo dello spirito ed una forma sonora purissima nel suo anelito alla liberta’ ed alla ribellione, il Beatle piu’ affascinante e cazzuto fosse John Lennon, mentre Paul McCartney aveva le sembianze  fisiche del cantante formato famiglia (il che, per chi proclamava di diffidare delle persone di eta’ superiore ai trenta anni, era davvero un’offesa quasi sanguinosa).


Lo so che nella sua carriera solista, secondo i signori di cui sopra, egli abbia varcato spesso i confini del buon gusto producendosi in canzoncine commerciali che hanno fatto quasi svanire il ricordo dei suoi capolavori nei favolosi sixties (ed effettivamente i pezi brutti ci sono, ma i CAPOLAVORI si contano a decine, ed i brani belli quasi centinaia).

Lo so che attualmente queste persone vorrebbero appendesse il basso al chiodo (ed anche tutti gli altri strumenti, essendo McCartney un polistrumentista pure valido, sostanzialmente) e si godesse nella vecchiaia il fiume di denaro derivatogli dai diritti d’autore di canzoni che sono le piu’ eseguite, molto probabilmente, dell’ultimo secolo “all over the world” da gruppi assortiti, solisti affermati, giovani talenti alle prime armi, vecchie glorie sul viale del tramonto, complessi jazz ed orchestre sinfoniche ………… 


All’atto pratico, a mio modesto parere, restano miniature pop che costituiscono forse il piu’ bell’esempio di cosa debba costituire una “song” di pochi minuti destinata all’ascolto di un pubblico quanto piu’ ampio sia possibile, e le “songs” in questione suonano fresche, gradevoli ed incontaminate pure dopo centinaia di ascolti: qui il mio riferimento e’ essenzialmente il McCartney solista e la sua produzione degli ultimi quattro lustri.

Il ragazzo ventenne che suona (bene, molto bene) il basso in una band destinata a passare alla storia dell’ Arte e della Cultura tout court sotto il nome di Beatles e’ semplicemente uno dei principali innovatori del ‘900, capace di immettere nella forma canzone sopra descritta un patrimonio sonoro che va dalla musica classica (i quartetti d’archi di Eleanor Rigby e She’s leaving home) a quella jazz (il puro vaudeville swingante di When I ‘m sixty-four), dal retaggio folk della propria terra (I’ve just seen a face) a quello souleggiante e gospel degli Stati Uniti (Let it be). 


Tutte le band che si cimenteranno nel genere da quel momento in poi attingeranno ad un simile repertorio, la cui influenza ed importanza incalcolabile arriva realmente fino ai giorni nostri.

Dunque e’ davvero giusto festeggiare il settantesimo compleanno di questo signore, arrivato alla sua eta’ pure un po’ piegato dalle vicende della vita (i lutti che lo hanno colpito con la perdita della moglie Linda e dei due “scarafaggi” morti troppo presto John Lennon e George Harrison, sono stati delle belle botte sicuramente), ma sostanzialmente ancora fresco e pimpante.

E  se artisticamente d’ora in poi (secondo me pure negli ultimi tempi, in sostanza) davvero non ne azzeccasse piu’ una, gia’ avrebbe consegnato il suo nome all’eternita’ ………. percio’ auguri, sir Paul !!! 

L'articolo Sui 70 anni del Macca proviene da Sound Contest.

]]>
LEE MORGAN: squilli di tromba che arrivano da lontano https://www.soundcontest.com/lee-morgan-squilli-di-tromba-che-arrivano-da-lontano/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=lee-morgan-squilli-di-tromba-che-arrivano-da-lontano Fri, 02 Mar 2012 23:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/lee-morgan-squilli-di-tromba-che-arrivano-da-lontano/ Sono passati 40 anni dalla scomparsa di uno dei maggiori trombettisti nella storia del jazz : il 19 febbraio del 1972, all’uscita di un club newyorkese, i proiettili sparati da una fidanzata gelosa colpirono a morte Mr Lee Morgan, un musicista che, appena trentatreenne, si era imposto tra i reali specialisti del suo strumento.   […]

L'articolo LEE MORGAN: squilli di tromba che arrivano da lontano proviene da Sound Contest.

]]>

Sono passati 40 anni dalla scomparsa di uno dei maggiori trombettisti nella storia del jazz : il 19 febbraio del 1972, all’uscita di un club newyorkese, i proiettili sparati da una fidanzata gelosa colpirono a morte Mr Lee Morgan, un musicista che, appena trentatreenne, si era imposto tra i reali specialisti del suo strumento.


 


Ogni assolo del Nostro spiccava per il taglio e l’incisivita’, un’inesauribile inventiva lo sosteneva nelle sue innumerevoli esecuzioni (incise tantissimo relativamente al proprio brevissimo passaggio terreno: fra dischi propri e partecipazioni a quelli altrui, centinaia di registrazioni), la sua evoluzione sonora lo porto’ dal be-bop corretto in hard-bop (e di questo genere fu uno dei massimi specialisti) alle incursioni nel genere modale con alcuni accenti free che egli intraprese al termine della sua carriera (senza immaginare fosse il termine, per l’appunto).


 


Una sua precipua caratteristica fu che egli non perse mai di vista le priorita’ dell’ascoltatore: pur senza essere assolutamente commerciale, disponeva il materiale sonoro nella maniera piu’ accattivante possibile per gli ascoltatori stessi, in modo da avvicinare il maggior numero possibile di persone alle sponde jazzistiche: con il disco ed il pezzo The sidewinder vendette tantissime copie, ed il brano e’ tra i piu’ famosi nella storia della musica improvvisata.


 


Peccato che la tossicodipendenza pesante gli impedisse di capitalizzare il successo commerciale suddetto, peccato che anche all’interno della comunita’ jazzistica in questione il nome di Lee venisse posto in secondo piano rispetto a quelli di Davis e Gillespie quali assoluti ed indiscutibili assi della tromba. I loro eredi (Fats Navarro, Clifford Brown, Booker Little) erano morti in giovane eta’, e gli assi sulla scena non sembravano all’altezza della situazione rispetto a simili colossi.


Morgan veniva pure penalizzato per il suo repertorio “facilotto”, se si puo’ dir cosi’ (le caratteristiche sopra descritte costituivano una spada di Damocle per i critici degli anni ’60, stregati dall’avanguardia e inclini a concedere assoluto credito ai musicisti che caratterizzassero la loro proposta in termini socio – culturali ben precisi: gli altri erano quasi dei conservatori, nel senso letterale e politico della parola, e percio’ destinati ad essere suppergiu’ spazzati via dall’impetuoso vento della storia che soffiava in differente direzione).


Peccato, in quanto si puo’ dire che egli abbia mantenuto uno standard qualitativo medio-alto davvero costante nei due lustri e mezzo di carriera.


Tra le numerose perle della sua collana sonora, si ricordano con piacere, oltre al The sidewinder di cui gia’ si e’ parlato, l’incisione in sestetto denominata Vol 3 dove, a soli 19 anni, Lee gia’ si muoveva completamente a suo agio tra standard e bellissime composizioni originali, quella a nome Candy dove il nostro invece interpreta molti pezzi altrui con classe e morbidezza impareggiabili, e il caleidoscopico The Procrastinator nel quale, accompagnato da una band da sogno, egli dipinge a colori forti e vividi su una tela sonora gia’ luminosa e cangiante per l’apporto di signori che rispondono ai nomi di Wayne Shorter, Bobby Hutcherson, Herbie Hancock, Ron Carter e Billy Higgins.


 


Dalla descrizione sono stati lasciati fuori almeno quattro o cinque realizzazioni di pari livello, e cio’ puo’ forse rendere minimamente l’idea delle capacita’ morganiane. Che pero’ e’ bello fotografare in un contesto preciso: la band sono i Jazz Messengers di Art Blakey, il disco e’ Moanin’, la composizione e’ quella cha da’ il titolo all’opera ed e’ una delle piu’ famose nell’intera storia del jazz.


Ebbene, nel suo intervento il ventenne trombettista non sbaglia una nota e si produce in un assolo memorabile per virtuosismo, potenza ma anche profondita’ espressiva. Si e’ nel giusto affermando che il successo della composizione stessa deve molto al Nostro: il quale suona lassu’, nel paradiso dei musicisti, purtroppo dimenticato se non dagli appassionatissimi del genere. Uno di loro non poteva far passare sotto silenzio l’anniversario della sua scomparsa, e ha scritto qualcosa per la circostanza.

L'articolo LEE MORGAN: squilli di tromba che arrivano da lontano proviene da Sound Contest.

]]>
FRANZ LISZT: il romanziere del pianoforte…nato 200 anni fa! https://www.soundcontest.com/franz-liszt-il-romanziere-del-pianoforte-nato-200-anni-fa/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=franz-liszt-il-romanziere-del-pianoforte-nato-200-anni-fa Wed, 26 Oct 2011 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/franz-liszt-il-romanziere-del-pianoforte-nato-200-anni-fa/ Povero Franz Liszt! Il piu’ grande pianista di tutti i tempi da un punto di vista tecnico, l’uomo che ha innovato la tecnica stessa dello strumento con il suo sovrumano virtuosismo, oltre a lasciare alla letteratura dello strumento in questione pagine meravigliose da un punto di vista espressivo, e’ stato visto da una buona parte […]

L'articolo FRANZ LISZT: il romanziere del pianoforte…nato 200 anni fa! proviene da Sound Contest.

]]>
Povero Franz Liszt! Il piu’ grande pianista di tutti i tempi da un punto di vista tecnico, l’uomo che ha innovato la tecnica stessa dello strumento con il suo sovrumano virtuosismo, oltre a lasciare alla letteratura dello strumento in questione pagine meravigliose da un punto di vista espressivo, e’ stato visto da una buona parte della critica, sostanzialmente, come una creatura meccanica che snocciolava note senza palpiti emotivi, a differenza dei suoi coetanei e colleghi di tastiera Schumann e Chopin.


Grande ingiustizia, innanzitutto, per un uomo generoso e amante della propria arte: le trascrizioni che egli compi’ a tutto spiano sulle produzioni dei musicisti che aveva ascoltato e prediligeva (Beethoven, Berlioz, Mozart, Rossini, Verdi) servirono piu’ di ogni articolo giornalistico o passaparola che dir si voglia a divulgare la loro musica, per l’appunto, in Europa, ed a riconoscerle il meritato credito di cui gode tuttora: la sua, di musica, invece…


Un mio amico studente di conservatorio disse una volta che gli “Studi di esecuzione trascendentale” lisztiani (parlava di alcuni in particolare) non riusciva proprio ad eseguirli da un punto di vista fisico: “ci vorrebbe un’estensione delle dita quasi sovrumana, o ci vorrebbero sei o sette dita per mano”, furono le sue indimenticabili parole. Aggiunse pure che, come nella favola di Esopo della volpe e l’uva, la difficolta’ esecutiva della musica suddetta spingeva gli incapaci a rinchiuderla nel ghetto quasi di un esercizio ginnico fine a se’ stesso, bollandola come mera esibizione di tecnica e basta: il fatto e’ che, da parola precisa del musicologo Arnold Schering, “il semplice suono del pianoforte stimolava in Liszt la facolta’ creatrice….. Le qualita’ sensuali del suono lo inebriavano”.


Da cio’ derivava un certo lasciarsi andare che e’ indubbiamente presente nella sua produzione, un compiacimento insistito che lo contraddistingue in alcuni momenti: del resto, bisogna pure immaginare il contesto…nu’ bello guaglione che durante i suoi concerti causava vere e proprie scene di isterismo fra le fanciulle presenti, con scene di giubilo pari a quelle degli artisti rock: pare che alcune di loro svenissero addirittura, per l’emozione di vederselo davanti. E allora, in una simile situazione, potrebbe pure starci che il Nostro sfoggiasse tutto il proprio repertorio di effetti, trovate e trucchi scenici, per dir cosi’: nel corso dei suoi 75 anni, egli avra’ modo di approfondire l’aspetto maggiormente intimista e profondo dell’esistenza umana sia all’interno delle sue composizioni ( nei pezzi piu’ tardi sfiora addirittura l’atonalita’, abbandona la facile melodia e si pone come diretto precursore di Debussy e Schonberg, si pensi un po’!), sia dentro la propria vita; al culmine di una crisi mistica determinata dalla morte di due suoi figli (per la primogenita Blandine scrisse la bellissima composizione La notte) divenne abate, e negli ultimi anni si dedico’ principalmente alla creazione di opere sacre.


Un personaggio molto complesso, il caro Franz: viaggiatore instancabile in vari paesi d’Europa, mecenate e mentore di artisti giovani e sconosciuti da lui provvisti dei mezzi per studiare ed esibirsi, uomo immerso completamente nei sommovimenti politici del diciannovesimo secolo che attraverso’ quasi per intero. Ascoltando il famosissimo valzer di Mefisto, si nota immediatamente la differenza strutturale con i valzer dei compositori a lui prossimi in tutti i sensi (anagrafico ed artistico): quelli indicano chiaramente la dolcezza e soavita’ di una vita a corte allietata dalle feste serali per il sovrano od Imperatore del periodo, questo, nel suo furore espressivo ed iconoclasta, nella sua timbrica poderosa, e’ la trasposizione in musica dei moti del 1848: nuove classi e soggetti sociali irrompono sulla scena del mondo, ed il suono tonante del pianoforte lisztiano e’ la colonna sonora ideale del loro arrivo fragoroso.


Percio’ e’ giusto ricordarlo a 200 anni dalla nascita, percio’ e’ giusto ribadire che, se la poesia della tastiera bianco e nera viene sommamente da Chopin, la prosa viene da Liszt: e spero che la mia modesta prosa spinga qualche lettore/trice dell’articolo ad ascoltare una delle sue innumerevoli creazioni artistiche. Sarebbe il miglior regalo per un cosi’ importante anniversario.

L'articolo FRANZ LISZT: il romanziere del pianoforte…nato 200 anni fa! proviene da Sound Contest.

]]>