Riassumere in poche righe l’attività artistica di Mafalda Minnozzi è quasi un’impresa titanica. Infatti, in oltre trentacinque anni di brillante carriera, la sopraffina cantante di origine marchigiana ha condiviso palco e studio di registrazione al fianco di uno stuolo di artisti blasonati in tutto il mondo, fra i quali Milton Nascimento, Dave Liebman, Leny Andrade, Gene Bertoncini, André Mehmari, Graham Haynes, Guinga, Lucio Dalla, Luca Aquino, Daniele Di Bonaventura, Gabriele Mirabassi, Giovanni Falzone, Giovanni Ceccarelli, Antonio Onorato, Filó Machado, Martinho da Vila, Toquinho. Grazie alla sua ammaliante presenza scenica, forte personalità, prorompente carisma e classe cristallina, ha incantato il pubblico a tutte le latitudini, in particolare in Brasile, Paraguay, Perù, Stati Uniti, Italia, Portogallo, Austria, Germania. Il suo prestigioso curriculum è ulteriormente impreziosito da alcune importanti partecipazioni televisive e radiofoniche come Unomattina su Rai 1 (stagione 1994 e 1995) e Stereonotte-Brasil su Rai Radio 1 (dal 2003 a oggi). Oltre ad aver pubblicato venti dischi, due DVD, protagonista di colonne sonore di film e serie TV in qualità di cantante e compositrice, è stata presente nella Top Ten delle voci femminili su Jazzit, nonché inserita fra le nomination della Targa Tenco per l’album d’esordio del suo progetto eMPathia. Una delle sue moltissime produzioni discografiche, “Sensorial – Portraits in Bossa & Jazz”, vanta trentaquattro settimane di permanenza nella Jazzweek USA e oltre duemila esecuzioni nelle radio statunitensi jazz più ascoltate al mondo come WBGO, KUVO, WUCF. I suoi dischi e le acclamate performance al Birdland Jazz Club, Mezzrow e Zinc Bar di New York con musicisti di calibro internazionale (Harvie S, Victor Jones, Will Calhoun, Art Hirahara, Essiet Okon Essiet, Helio Alves, Yoshi Waki e Gene Bertoncini) hanno fatto sì che la comunità jazzistica della “Big Apple” abbracciasse il suo stile, riconoscendo il suo talento e consolidando la sua fama di raffinata interprete. E a proposito di album, i recenti A Napoli – Porto dell’Anima, Primavera – Live From The Studio, Estate – Live From Studio e Cinema City – Jazz Scenes From Italian Film hanno riscosso un notevole successo di pubblico e critica. Fra le voci italiane più apprezzate sulla scena internazionale, Mafalda Minnozzi riesce a creare un suggestivo mélange comprendente jazz, samba e bossa nova – ed è riconosciuta come una fra i massimi esponenti del latin jazz in ambito mondiale. Venerdì 5 maggio, al teatro Giuseppe Persiani di Recanati, sarà ospite della serata dei finalisti alla XXXIV edizione di Musicultura, accompagnata dal suo storico partner musicale: il chitarrista Paul Ricci. Insieme a lui, rigorosamente in chiave latin jazz, renderà omaggio a Ivano Fossati, Chico Buarque de Hollanda e Umberto Bindi.
Sei ospite della XXXIV edizione del prestigioso concorso “Musicultura”. Venerdì 5 maggio, al teatro “Giuseppe Persiani” di Recanati, ti esibirai in duo con il tuo compagno di avventure musicali: il chitarrista Paul Ricci. Per te, artista internazionale assai apprezzata particolarmente in Brasile e negli Stati Uniti da più di trentacinque anni, sotto l’aspetto emozionale, che esperienza sarà tornare nelle Marche, proprio la regione in cui sei cresciuta, a omaggiare la canzone d’autore internazionale in chiave latin jazz?
Ho sempre guardato al Musicultura con grande interesse. Quando ho potuto l’ho anche seguito durante tutti questi anni, incrociando tante vicende politiche, culturali e tanti movimenti sociali. Questo evento ha sempre presentato uno spaccato di grande spessore e contenuto musicale, poetico nei testi dei brani. Io ho messo in “valigia” tanti autori che mi hanno accompagnato nel corso della mia carriera, li ho reinterpretati conducendoli verso il mondo, verso altre culture, per poi giungere a una comunione d’intenti, alla volontà di stare insieme, di riconoscerci, rispettarci e arricchirci attraverso le altre culture, sempre tramite la musica. Partecipare al “Musicultura”, per me, è un po’ come il ciclo della vita, dove tutto inizia per poi ritornare nei punti che ti hanno dato l’impulso per crescere, che ti hanno dato appunto la vita, perché sono di origini marchigiane. Poi lo sprint, quella partenza per ritornare di nuovo a rimettere in linea tutta la nostra storia. Grazie a questo evento, credo che tutto ciò sia un circolo che si chiude per poi riaprirsi nuovamente.
A proposito dei brani che proporrai, ti presenterai con “Oh Che Sarà” (“A Flor da Pele”) e “Arrivederci”. Questi due capolavori del repertorio appartenente alla canzone d’autore internazionale rappresentano per te l’abito musicale più adatto per donarti al pubblico attraverso le tue rare qualità interpretative?
Il mio repertorio è amplissimo: da Jacques Brel ad Antônio Carlos Jobim, da Lucio Dalla a Cole Porter. Ogni volta che interpreto una canzone è come interpretare una storia di vita, sia mia ma appartenente anche a quella generazione del periodo in cui sono stati scritti quei determinati brani, con l’intento di portare questi pezzi verso argomenti attuali, nuovi, soprattutto verso una platea molto giovane, anche perché ho grandissimo rispetto dei nuovi artisti e delle nuove generazioni che si affacciano a questo lavoro, un mestiere che necessita di tanta dedizione, impegno e serietà, anche se stimola parecchio la nostra parte ludica. “Oh Che Sarà” (“A Flor da Pele”) di Chico Buarque de Hollanda è una canzone estremamente rappresentativa, un’esortazione, un punto di partenza ma anche di arrivo. Questo perché la risposta rispetto a ciò che succederà si può scoprire solo tramite quel geniale percorso introspettivo intrapreso da Chico Buarque de Hollanda, anche nella versione italiana del mirabile cantautore Ivano Fossati. “Oh Che Sarà”, dunque, è un manifesto che merita di essere conosciuto dalle nuove generazioni. “Arrivederci”, invece, è una canzone di Umberto Bindi dal pathos incredibile, è struggente ma allo stesso tempo piena di speranza, la stessa speranza che coltivano i ragazzi che saliranno su un palco così importante come quello del “Musicultura”.
A proposito del tuo felice sodalizio artistico con Paul Ricci, lui contribuisce notevolmente agli arrangiamenti dei brani. La tua toccante sensibilità interpretativa e la sua pregevole finezza comunicativa sono un vero e proprio trait d’union che, sul palco, vi rende un corpo solo e un’anima sola. Qual è il segreto di questa magica alchimia?
In realtà non c’è nessun segreto, è sempre stato tutto alla luce del sole fin dall’inizio. Ormai siamo arrivati a oltre ventisette anni di costruzione del nostro rapporto artistico. In questo percorso ci sono stati alcuni inciampi, senza riuscire ad arrivare al “tetto della casa”, per poi (ri)costruire nuovi percorsi e pensare di giungere finalmente al “tetto della casa”. È un continuo costruire e decostruire, montare e smontare, questo perché è fondamentale trovare l’intuito dell’autore e il fine che deve raggiungere il brano. A volte l’obiettivo non è esattamente ciò che si era posto lo stesso autore. Un po’ come un quadro, che magari non lo vedi con gli stessi occhi del pittore che lo ha dipinto. Paul Ricci, invece, riesce perfettamente a intrepretare le mie intenzioni attraverso dei riff, vocalizzi, oppure con lo scat o ancora semplicemente tramite dei silenzi, delle pause, traducendo il tutto su un pentagramma: questa è l’alchimia, la chimica. Grazie a tutto ciò, riusciamo a dar vita a una sintesi artistica che comunichiamo al pubblico. Ma la cosa più bella, probabilmente questo sì, un piccolo segreto per me, è come questa simbiosi possa catturare così meravigliosamente chi ci ascolta.
Manifesti l’amore per il latin jazz con una naturalezza disarmante, attraverso una genuinità e una generosità che conquistano all’istante. Ma nel tuo vasto repertorio il cantautorato italiano e internazionale, oltre alla tradizione jazzistica, ricoprono un ruolo fondamentale nel tuo background. Questa brillante sintesi improntata su generi musicali diversi rappresenta per te un messaggio artistico ecumenico da trasmettere?
Se analizzo gli artisti italiani che hanno toccato la mia anima sono quelli sempre profondamente legati alla natura, al mare, ai paesaggi, alla semplicità della vita. Lucio Dalla, ad esempio, si è proposto al mondo con un tono regale, capace di gestire la “situazione” dal suo “trono” con un potere disarmante: dalla “Settima Luna” a “Felicità”, da “Caruso” a “Futura”, descrive tutte le sfaccettature della vita, dal tradimento all’abbandono, dall’arroganza all’avidità, ma sempre con grande naturalezza. Lo stesso discorso vale per Ivano Fossati, disarmante per la sua spontaneità nello scrivere parole uniche come, per esempio, nella canzone “Una Notte in Italia”, in cui dice di scoprire l’amore con grande fragilità. Spesso la naturalezza insita in ogni essere umano è nascosta da maschere o comportamenti che nulla hanno a che vedere appunto con l’umanità. Il latin jazz, invece, attraverso elementi riconducibili all’Africa, alla genuinità delle percussioni, alle sonorità che provengono dalla natura, fanno sì che mi possa aiutare a comunicare concetti importanti. Ho una registrazione di un brano scritto dall’immenso Francesco De Gregori, “La Donna Cannone”, altro importantissimo manifesto del cantautorato italiano, dove il pezzo inizia con un canto di un uccello. Ho registrato questo canto di uccello molto particolare, nelle spiagge tropicali, perché a mio avviso rappresenta il “salto” che la “Donna Cannone” amava fare. Effettivamente il cerchio si chiude con questa congiunzione di suoni, natura e voli, che sono la parte più naturale della nostra mente, dei nostri sogni.
Italia, Brasile e Stati Uniti: questi tre Paesi rispecchiano anche i tratti distintivi del tuo carattere?
Posso cantare in Giappone o nel Bahrain (la prossima settimana, n.d.r.), Paesi in realtà distanti da me dal punto di vista dei tratti caratteriali, così come per esempio ad Atlanta (Stati Uniti), città in cui non mi identifico per pensiero politico o sociale, ma io cerco sempre e comunque di rappresentare me stessa attraverso i miei viaggi, i miei incontri, i luoghi che frequento, perché ad ogni modo esiste un comun denominatore: tutti i palchi sono uguali! Possono essere più belli, più alti, più bassi, più o meno illuminati, però è sempre un rapporto a due, dove l’artista è lassù, in quello spazio per cui hai lottato un’intera vita per conquistartelo, dove puoi dire quello che pensi, quello che vuoi dire al pubblico. E dall’altre parte c’è proprio la gente che ti ascolta, una platea sempre uguale, composta da esseri umani che vogliono distrarsi, sorridere, piangere, sognare, toccare. Quindi, ribadisco, sono tutti uguali, indipendentemente dalla lingua che parlano, perché ce n’è una che è diversa, ossia quella dell’intuito, molto più profonda, una lingua che non ha né colore né bandiere.