E’ con grandissimo piacere che incontriamo, sebbene soltanto telefonicamente per via del confino dovuto all’infezione pandemica, il decano dei batteristi jazz italiani, il grande Eugenio Commonara, in arte Gegè Munari.
Ottantacinque primavere, nativo di Frattamaggiore in provincia di Napoli, Gejazz – come lo soprannominò Griffin e come si fa chiamare dagli amici e dai colleghi musicisti – sfodera una profonda carica di simpatia ed una verve da giovanotto e ci accoglie con grande entusiasmo, mettendoci subito a nostro agio.
Le foto sono di Francesco Truono
Buon pomeriggio e bentrovato Maestro Munari! Ci racconta come è stata la Sua infanzia in una famiglia di musicisti e come è avvenuto il Suo incontro con la musica?
Innanzitutto, diamoci del tu, io per tutti sono Gegè!
Era il 1944 quando, a sei anni, facevo la claquette (ballava il tip tap per intrattenere il pubblico, mentre l’orchestra suonava, n.d.r.) esibendomi con l’orchestra di mio padre e dei miei fratelli: c’era Pierino che suonava la batteria e la tromba ed Armando che suonava il sax tenore, il violino ed il clarinetto; ed infine mio papà Tommaso che si esibiva al contrabbasso. Papà, di professione, faceva il barbiere ed aveva il suo negozio a Frattamaggiore, dove vivevamo, in provincia di Napoli.
Eravamo tutti musicisti autodidatti; lo swing in me è una cosa innata: sono convinto, infatti, che lo swing o ce l’hai dentro, o non lo farai mai bene.
Ho imparato a leggere la musica soltanto in seguito, negli anni Sessanta, quando entrai a far parte dell’Orchestra RAI di Roma.
All’arrivo degli americani a Napoli, noi, gli Otto Munari Otto (questo il nome dell’orchestra di famiglia, n.d.r.), siamo stati la prima orchestra italiana a suonare per loro; viaggiavamo con la Red Cross Americana; con noi nel gruppo, a volte, suonava il contrabbasso un tenente americano che cantava anche (quando il padre di Munari non suonava, n.d.r.). A noi si aggiunse anche un mio zio che suonava la chitarra ed un fisarmonicista del Nord Italia, di cui purtroppo non ricordo il nome.
Abbiamo suonato nelle varie basi NATO italiane: andavamo a Foggia con la Fortezza Volante, partendo dall’aeroporto militare di Napoli Capodichino e ci esibimmo pure a Livorno; facevamo la spola da Cassino a Venafro (PZ) e, per il nostro ’tour’, avevamo a disposizione un autista americano che ci accompagnava con uno dei loro ‘truck’ a sei ruote. Quando andavamo in scena, ci vestivamo con le divise americane, che ci vennero fornite da loro.
Quando hai incominciato a suonare anche in altri contesti, in formazioni più piccole e più vicine al tuo modo di sentire la musica ed al genere che ti era più affine?
Stando al Club Ufficiali della NATO di Bagnoli, a Napoli, ebbi modo di sentir suonare le grandi orchestre bebop americane e non mancò l’occasione, grazie agli ufficiali che mi portavano lì con loro in auto, di andare ad assistere, sulle portaerei Forestal e Saratoga ormeggiate nel porto di Napoli, a dei veri e propri spettacoli musicali.
Ad esempio, Dave Brubeck con il suo quintetto si esibì in quel periodo a Bagnoli ed io ho potuto apprezzarli live per la prima volta proprio in quella circostanza.
A Bagnoli c’era inoltre l’orchestra americana stabile della NATO, che potevo quindi ascoltare live spessissimo, forgiando in questo modo la mia inclinazione verso la musica jazz.
Fred Buda, un batterista che mi fece lezione di strumento alla Nato di Bagnoli e che mi regalò la mia prima batteria (una delle prime in Italia con il charleston alto e con i fusti lunghi, n.d.r.), è poi diventato il direttore della Berklee School di Boston negli USA, dove insegnava batteria e percussione.
Quando avevo circa 23 anni, cominciammo a suonare allo Zig Zag, un Club jazz aperto solo agli americani, che si trovava a Via Toldeo, sotto alla Galleria Umberto I: questa nuova formazione comprendeva mio padre al contrabbasso, mio fratello Armando al sax, clarinetto e violino e me alla batteria (il fratello Pierino si era nel frattempo trasferito a Roma, dove suonava nell’orchestra di Angelini, n.d.r.).
Sempre in esclusiva per gli americani e con il medesimo gruppo, abbiamo suonato alla Reggia di Caserta per diversi mesi.
Ci siamo inoltre esibiti in un altro locale jazz concepito per un pubblico di americani, lo Snack Pit’s, dove, per la prima volta, c’era anche una audience italiana (napoletana, n.d.r.): è stato qui che ho incontrato Antonio Golino ed Enzo Restuccia, entrambi batteristi; ed il trombettista Nunzio Rotondo, che spesso si sono esibiti insieme a noi.
Venendo ad esperienze più intimistiche, posso dirti del mio primo Trio jazz, con Giovanni Tommaso al contrabbasso e Franco D’Andrea al pianoforte: suonammo moltissimo insieme e ci esibimmo anche per un pubblico di americani.
C’è qualche collaborazione, tra le tantissime con musicisti che definire “stellari” è ancora poco, che ritieni miliare nella tua esperienza live?
Il primo grande nome che ho incontrato nel mio percorso musicale è stato Don Bayes, il famoso sassofonista di Campesi.
Un altro momento che ricordo sempre come focale nella mia carriera è stato quando fui chiamato dall’organizzatore Alberto Alberti per suonare per la prima volta al festival di Bologna: avevo circa 26 anni e mi esibii con Johnny Griffin ed al piano c’era Franco D’Andrea.
Griffin, ogni tanto, mentre suonavamo, si voltava e mi guardava fisso. Allora, al termine del concerto, chiesi ad Alberti di far da tramite per me e di domandare in inglese a Griffin che cosa mai avesse da guardarmi ripetutamente ed a quel modo e lui gli rispose che “lo swing che io suonavo, lo spingeva da dietro al posteriore” (“He was pushing me in my ass!” fu l’espressione inglese che Griffin usò per dire che il suo ritmo lo incalzava moltissimo, n.d.r.).
Mi sono esibito persino al Madison Square Garden di New York: prima del nostro concerto, c’erano gli incontri di boxe e noi fungevamo da intermezzo.
Ho pure suonato con un’orchestra italiana, accompagnando in tour in America Massimo Ranieri; di quella esperienza ricordo Maurizio Maiorano al basso, Sal Genovese al sax e Silvano Chimenti alla chitarra.
Hai finora all’attivo moltissime produzioni discografiche. Ci racconti qualcosa di cinque dei tuoi lavori che ritieni più significativi nel tuo percorso artistico?
Ho partecipato a tantissime registrazioni discografiche, non saprei dirti quali in particolare, perché, fortunatamente, mi hanno chiamato a dare il mio contributo musicale in tantissimi contesti prestigiosi.
Ne cito alcune che mi vengono in mente, tipo Stereokonitz del 1968, pubblicato con la etichetta RCA con Lee Konitz, Franco D’Andrea, Enrico Rava e Giovanni Tommaso; e poi Jazz At Cinecittà, del 1976, con Mario Schiano. Ed ancora quello uscito sotto l’egida di Umbria Jazz con la Franco Piana Big Band nel 1991 ed un paio di incisioni con il Gianni Basso Quartet.
Come registrazioni dal vivo, mi viene in mente quella all’Alexander Platz di Roma, del 1994, dove ho condiviso il palco con Red Rodney, Slide Hampton, Bucky Pizzarelli, Buddy De Franco e Massimo Urbani.
La lista dei musicisti stranieri, che hanno fatto la storia del jazz mondiale e con cui hai suonato, è quasi infinita: Gato Barbieri, Lionel Hampton, Jon Hendrieks, Albert Nicholas, Side Hampton, George Coleman, Kay Winding, Cedar Walton, Steve Lacy, Jon Faddis, Hal Grey, Marcello Rosa, Martial Solal, Lee Konitz, Joe Newman, il Walter Bishop trio. Quali di questi sodalizi artistici ricordi con più emozione e per quali ragioni?
Li ricordo tutti con grande piacere, io mi emozionavo con tutti. Anche ora, ad 85 anni, quando salgo sul palco con uno dei “grandi”, mi emoziono tantissimo. Poi, appena inizio a suonare, mi immergo nella musica e mi passa tutto.
Nella tua lunga e variegata carriera musicale, hai accompagnato anche grandissime cantanti, come Liza Minnelli ed Etta Jones e altre personalità del mondo dello spettacolo, come Jerry Lewis: ci dici qualcosa di queste esperienze così speciali?
Jerry Lewis era una persona unica, di grande simpatia; era sempre gentile e molto divertente. Una sua caratteristica era quella di mangiare tantissime caramelle, una dopo l’altra: dopo, quando tirava fuori la lingua, era immancabilmente tutta colorata di rosso!
Con Lewis ho fatto degli spettacoli televisivi in Italia, quando militavo nell’orchestra della RAI Televisione Italiana, dove suonavo con Gianni Basso, Oscar Valdambrini, Dino Piana, Al Korvin (Alberto Corvini, n.d.r.); ho suonato con lui anche in un concerto che si tenne all’ultimo dell’anno presso il famoso locale La Capannina di Viareggio.
Con Liza Minnelli, invece, collaborai solo in occasione di alcuni spettacoli che si tennero alla Rai di Roma.
Circa la Tua collaborazione con Chet Baker, puoi raccontarci come è avvenuto il vostro incontro e quali sono i tuoi ricordi collegati alla sua persona, circa le esperienze fatte insieme live ed in studio?
L’incontro tra di noi è avvenuto a Bologna, sempre grazie ad Alberto Alberti; abbiamo suonato per alcune date al Nord Italia e poi a Roma al Saint Louis, un locale jazz della zona del Vaticano, che ora non esiste più: c’era Enrico Pierannunzi al pianoforte, Antonello Vannucchi al vibrafono, Riccardo Delfra al contrabbasso ed io alla batteria.
Devi sapere che Alberto Alberti, purtroppo scomparso nel 2006, è stato colui che ha creato i festival jazz in Italia; non gli dobbiamo soltanto il Bologna Jazz Festival, ma anche l’Umbria Jazz. Alberti era un grandissimo organizzatore e portava i musicisti; Carlo Pagnotta gli si affiancò nell’organizzazione e si occupava, al tempo, degli sponsor. Mi sono esibito spesso ad Umbria Jazz: ricordo che, in una edizione in particolare, ho suonato con ben tre formazioni differenti: il Quartetto di Gianni Basso, con l’Orchestra di Franco Piana e con il Sestetto di Oscar Valdambrini, una cosa più unica che rara, io credo!
Gli incontri con questi grandi musicisti della sfera jazz mondiale, sono stati casuali oppure dettati da circostanze artistiche ben definite, tipo un concerto o una produzione discografica?
Erano i loro impresari che mi chiamavano dall’America ed io andavo a fare delle tournée con loro, nella maggior parte dei casi.
Tra le tue collaborazioni ve ne è anche una con Astor Piazzolla, una delle personalità non appartenenti al mondo del jazz. Ti chiedo quindi in quale periodo della tua carriera hai avuto il piacere di incontrarlo e lavorare con lui? Inoltre si può dire quindi che, nel linguaggio universale della musica, può esistere un legame tra generi che apparentemente sembrano molto distanti tra di loro?
Con Piazzolla l’occasione per la collaborazione è nata perchè insieme abbiamo fatto degli spettacoli in tivù.
Generi musicali apparentemente diversi tra loro possono assolutamente avere un legame, perchè la musica non ha confini! Pensa che io ho fatto dischi alla RCA con Sergio Endrigo, Rita Pavone e sono stato chiamato come batterista quando sono state registrate tantissime colonne sonore di film con Ennio Morricone, Nino Rota, Armando Trovajoli, Bruno Canfora, Gianni Ferrio, Jerry Goldensmith.
Mi richiedevano, mi pagavano pure bene, era il mio lavoro anche questo.
C’era una profonda amicizia tra me e loro e, quando avevo degli impegni jazz irrinunciabili, chiedevo una serata libera e proponevo io stesso un sostituto: Roberto Gatto, Fabrizio Sferra, Nicola Angelucci, che sono stati tutti miei allievi.
Ho militato per anni nell’orchestra della RAI e suonato in molte trasmissioni televisive molto note: Studio Dieci, Mille Luci, Fantastico, Domenica In, Al Paradise. Spesso ci davano le parti un’oretta prima, ed io me le guardavo un pochino. Questo, però, non era sempre possibile. Accadeva pure che fossero i fiati a provare per primi ed io li ascoltavo e mi guardavo, intanto, lo spartito, così, quando toccava a me, già sapevo tutto.
Io ho imparato a leggere la musica, proprio stando in orchestra. Poi, sai, quando il ritmo “ce l’hai dentro”, il gusto ti porta e “ti butti”.
Non dimentichiamo anche la tua stretta collaborazione con Gato Barbieri, nella metà degli anni Sessanta. Cosa vi ha unito così tanto da creare un sodalizio artistico? Ci sono anche progetti discografici e live che avete realizzato insieme?
Sì, abbiamo fatto concerti, registrato dei dischi, realizzato delle colonne sonore per la televisione e persino i sottofondi per l’intervallo. Noi due ci siamo conosciuti tramite altri musicisti con cui suonavamo, quando venivano in Italia, era una sorta di passaparola.
Avendo conosciuto così tante personalità del jazz italiano ed internazionale, hai qualche nome con cui avresti voluto suonare anche solo per una volta?
Avrei tanto voluto suonare con John Coltrane e con Stan Gets, però purtroppo non mi è mai capitato.
Come trascorri le tue giornate in questo tempo di confino preventivo?
Guardo, tramite Internet ed in tivù, tanti concerti jazz delle orchestre straniere: in particolare, mi dedico a quelle americane, tedesche ed olandesi perché trovo che siano veramente pazzesche nel loro modo di suonare! A volte guardo anche qualche film. Poi prendo una boccata d’aria e cammino un pò sul balcone, a volte scendo a mettere in moto la macchina. Il non poter suonare e lo scambio tra musicisti mi manca moltissimo e non vedo l’ora di poter tornare a farlo!