Olindo Fortino, Autore presso Sound Contest https://www.soundcontest.com/author/minimo50/ Musica e altri linguaggi Tue, 19 Sep 2023 01:35:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 SLOWDIVE | Everything Is Alive https://www.soundcontest.com/slowdive-everything-is-alive/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=slowdive-everything-is-alive Sat, 16 Sep 2023 16:43:20 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62110 Sorrido nel pensare che “Everything Is Alive”, quinto album degli Slowdive, sia uscito giusto il primo di settembre. Qui da noi coincide con l’avvio di un nuovo anno scolastico e la presa di servizio ufficiale degli insegnanti. Ligi al dovere devono averlo saputo e ricordato anche Neil Halstead e soci, da sempre tra i più […]

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SLOWDIVE
Everything Is Alive
Dead Oceans Records
2023

Sorrido nel pensare che “Everything Is Alive”, quinto album degli Slowdive, sia uscito giusto il primo di settembre. Qui da noi coincide con l’avvio di un nuovo anno scolastico e la presa di servizio ufficiale degli insegnanti. Ligi al dovere devono averlo saputo e ricordato anche Neil Halstead e soci, da sempre tra i più eclettici e rispettabili “maestri” dello shoegaze. Il loro ritorno in cattedra (a distanza di un lustro dall‘omonimo e pure ottimo disco post-reunion della formazione originale) ci consegna un album di scintillante perfezione, dove, come da titolo, tutto ciò che si ascolta non solo è vivo e vegeto ma anche di più.

 

Per rendersene conto basta ascoltare con attenzione queste otto nuove lezioni, anzi, variazioni sul genere. L’impegno è tuttavia meno difficoltoso di quel che sembri, perchè se lo si paragona a tutti i lavori dispensati e centellinati in trentatré anni di carriera, “Everything Is Alive” è forse il più accessibile e lineare realizzato dal quintetto di Reading.

Attenzione, però: definirlo accessibile non signica affatto etichettarlo come facile e immediato. Tutt’altro. Possiamo invece constatare come la maniacale cura dei dettagli e lo spirito di ricerca, da sempre elementi peculiari del gruppo, trovino qui una forza inedita nel fare breccia e catturare l’attenzione, in virtù soprattutto di un più marcato e ampio utilizzo della componente elettronica, a sua volta conseguenza dell’intenzione iniziale di Halstead di dare a questo materiale una veste esclusivamente minimal-techno, forse anche coltivando l’idea di riuscire meglio lì dove il controverso “Pygmalion” aveva in qualche modo fallito.

In buona sostanza, la complementare parità di spazio e azione riservata sia agli strumenti elettrici che a quelli elettronici rappresenta, in questa circostanza, la principale novità (strategica e vincente) rispetto al passato. L’impiego di tastiere, loop ed altri effetti analogici e digitali costituisce, infatti, il vero filo rosso che lega tra loro le otto tracce; un fattore che ribalta e ravviva con obliqui colori dream pop la sfuggente ma gloriosa ricetta shoegaze della band, tradizionalmente ancorata ai mirabolanti intrecci-fraseggi, ai dilatatati riverberi e ai diafani giochi armonici condotti da Neil Halstead e Christian Savill sulle corde delle loro rispettive chitarre.

In tal modo brani quali Shanty, Andalucia Plays, Skin In The Game e Kisses, dalle armonie vocali suggestive e balsamiche, umoralmente divisi tra estasi e melanconia, beneficiano di un dinamismo melodicamente soave e avvolgente, che se nel precendente album omonimo usciva dal sentiero con il chitarrismo più spinto e incalzante di Star Roving, qui replica un simile incidente e cambio di passo con il pulsante crescendo tridimensionale della conclusiva The Slab.

Dal canto loro, sia accoppiate che separate, le voci analgesiche di Rachel Goswell e Neil Halstead riescono a trasmettere tutta la profondità e la valenza simbolica di testi ovunque brevi ma sovente caratterizzati da una certa indecifrabilità. In fin dei conti la stessa essenzialità dei testi investe anche il lato squisitamente sonoro dei brani, nel complesso tutti elementari e tuttavia capaci di imbrigliare il piacere dell’ascolto dentro un dedalo di suggestioni, azzardi e rimandi. E così se da un lato l’irresistibile gancio melodico di Alife accosta i New Order alle chitarre dei Church, dall’altro la strumentale Prayer Remembered inocula nella sua immaginifica aura sospesa l’ambient dei Labradford insieme al post-rock più quieto dei Mogwai e degli ultimi Explosions In The Sky.

Faccenda singolare è, al contrario, quella di Chained To A Cloud, che forte del suo “dream pop” ad alto tasso cinematico replica, in modo clamoroso, i Beach House di “Once Twice Melody”. Gli allievi che ispirano e superano i maestri? Non direi. Con quel disco il duo di Baltimora aveva svolto un compito al limite dell’eccellenza grazie a diciotto pezzi per la durata di ottanta minuti e rotti. In questo, invece, agli Slowdive ne sono occorsi appena otto e la metà del tempo per superarlo e ottenere lo stesso risultato.

 

Voto: 8/10
Genere: Alternative Rock / Electronic / Dream Pop

Musicisti:

Rachel Goswell – vocals, keyboards
Neil Halstead – vocals, guitar, keyboards, electronics
Christian Savill – guitar
Nick Chaplin – bass
Simon Scott – drums, electronics

Tracklist:

01. Shanty
02. Prayer Remembered
03. Alife
04. Andalucia Plays
05. Kisses
06. Skin In The Game
07. Chained To A Cloud
08. The Slab

Links:

Slowdive
Dead Oceans Records

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ROBYN HITCHCOCK | Shufflemania! https://www.soundcontest.com/robyn-hitchcock-shufflemania/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=robyn-hitchcock-shufflemania Sun, 03 Sep 2023 06:00:48 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=61927 Come pochi altri Robyn Hitchock ha la singolare destrezza di un baro. Incredibile come dallo stesso mazzo d’idee e canoni con cui gioca da oltre quarant’anni (Bob Dylan, Beatles, Syd Barrett, Byrds, Bryan Ferry e Captain Beefheart ) quest’uomo cali sempre inaspettati assi vincenti. Cambiata aria e trasferitosi nel 2015 sull’altra sponda dell’Oceano in quel […]

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ROBYN HITCHCOCK
Shufflemania!
Tiny Ghost Records
2022

Come pochi altri Robyn Hitchock ha la singolare destrezza di un baro. Incredibile come dallo stesso mazzo d’idee e canoni con cui gioca da oltre quarant’anni (Bob Dylan, Beatles, Syd Barrett, Byrds, Bryan Ferry e Captain Beefheart ) quest’uomo cali sempre inaspettati assi vincenti. Cambiata aria e trasferitosi nel 2015 sull’altra sponda dell’Oceano in quel di Nashville, il musicista e songwriter inglese si è brillantemente arredato un personale universo ricco di stimoli, iniziative e incontri. Con la nuova partner (la cantante di origine australiana Emma Swift) ha messo in piedi una propria etichetta e azienda editoriale , la Tiny Ghost Records, marchio con cui ha già pubblicato “Blonde On The Tracks” del 2020 intestato alla Swift, la recente raccolta strumentale “Life After Infinity” e “Somewhere Apart: Selected Lyrics 1977 -1997”, libro antologico uscito lo scorso anno con un’accurata selezione di testi e illustrazioni.

 

Ventiduesimo album ufficiale dell’ex leader dei Soft Boys, “Shufflemania!” arriva a distanza di ben cinque anni dal precedente “Robyn Hitchcock”. Quasi un’eternità, se consideriamo la cadenza ravvicinata di uscite discografiche disseminate dal Nostro subito dopo “Black Snake Diamond Röle”, debutto solista del 1981. Come confessato e dichiarato da più parti dallo stesso Hitchock, la chiave di volta del disco è The Feathery Serpent God, terza traccia delle dieci presenti in scaletta. Un avvolgente manufatto di popedelia elettroacustica connotato da suadenti armonie vocali e soprattutto dagli esotici timbri e arpeggi di un sitar affidato alle valenti mani di Kelley Stoltz. Assediato, infatti, da un insolito blocco creativo, Hitchock riporta di aver ritrovato il genio dell’ispirazione proprio con la stesura di tale pezzo dedicato al mitologico dio-serpente piumato Quetzalcoatl, abbozzato nel 2019 dopo una visita invernale al complesso archeologico Maya di Tulum, nella penisola messicana dello Yucatan.

Risolto questo problema personale il buon Robyn ha poi però dovuto affrontarne un altro di ben più grave rilevanza generale: la pandemia. “Shufflemania!” è infatti un album costretto a nascere “a distanza“, ma ad ascoltarlo così coeso e perfetto in ogni dettaglio non lo diresti, tanto bene gira da cima a fondo grazie all’impeccabile postproduzione della coppia Hitchock-Swift presso gli Abbey Road Studios di Londra e soprattutto all’eccellente lavoro di missaggio svolto dal fidato polistrumentista e ingegnere del suono Charlie Francis.

Come già accaduto nel precedente lavoro eponimo, anche qui nei credits nei brani si avvicendano disparati ospiti e amici, invitati a fornire contributi di varia natura. Pertanto oltre ai già citati Stoltz e Francis ritroviamo Brendan Benson (Raconteurs) e Pat Sansone (Wilco), affiancati da new entry di peso come Johnny Marr, Sean Lennon e addirittura (udite, udite!) Kimberley Rew e Morris Windsor, storici compagni di merenda del Nostro nei Soft Boys.

Fondato su tali elementi e presupposti, “Shufflemania!” è dunque disco tra i più impegnativi e articolati mai realizzati da Hitchock, sicuramente tra i suoi migliori dell’ultimo decennio, dove ogni singolo brano ha la sua storia (partendo da una base per sola voce e chitarra molti di essi hanno fatto non meno di quattro o cinque andirivieni per il mondo prima di trovare la loro forma definitiva), il suo messaggio (leggetevi i testi e capirete perchè, a livello di penna, Hitchock sia e resti sempre una spanna sopra gli altri) e soprattutto la sua originalità nel richiamare oppure dissimulare i prediletti modelli estetici citati in apertura.

Duttilità ed eleganza sono perciò gli aggettivi che meglio definiscono questa raccolta estremamente eterogenea per tempi e accenti, capace di transitare dal reale al surreale, dal personale all’universale sulla scorta di un pop-rock d’autore musicalmente travolgente, valorizzato da interpretazioni vocali che nel loro timbro (e malgrado l’età) restano ancora uniche e formidabili.

Dislocato in apertura, The Shuffle Man è un acidulo rock a briglia sciolta che più avanti si ripropone con gli echi barrettiani di The Sir Tommy Shovell, stupendo summit chitarristico tra Hitchcock, Benson e Rew. Sorprendono poi le ruvide cadenze glam-rock à la Bowie-Bolan di The Raging Muse ma anche quelle più lente e trasognate di The Man Who Loves The Rain, due pezzi in cui figurano Pat Sansone, Charlie Francis e l’altrettanto bravo polistrumentista texano Ryan Brewer. Altra ballad lisergica è The Inner Life Of Scorpio, brano con e per Johnny Marr (del segno zodiacale in questione), qui coadiuvato dalla solita coppia Sansone-Francis. Restano da sottolineare anche il country-blues psichedelico e notturno di Midnight Tram To Nowhere, la sintassi beatlesiana di Socrates In Thin Air nonché la bossanova (in chiave ancora barrettiana) di Noirer Than Noir.

Posta in coda, One Day (It’s Being Scheduled) veicola infine quel lirico messaggio di umanità e speranza che non possiede scadenza, con Sean Ono Lennon a supportare strumentalmente Hitchock in un riuscito upgrade per i tempi correnti della paterna e immortale Imagine.

 

Voto: 8,5/10
Genere: Psych-Pop-Rock / Songwriting

Musicisti:

Robyn Hitchcock – vocals, electric guitar, acoustic guitar, harmonica
Brendan Benson – harmony vocals, acoustic guitar, electric guitar, bass, electronic drums,
Pat Sansone – bass, percussion, keyboards, baritone guitar, electric guitar, 12 string guitar
Johnny Marr – acoustic guitar, electric guitar, piano, strings, backing vocals, bass, drums
Sean Ono Lennon – drums, bass, marimba, vocoder, bells, vibes, clavinet, celesta, mellotron
Kelley Stoltz – sitar, shruti box
Charlie Francis – electric guitar, percussion, bass, marimba, piano, bagpipes
Ryan Brewer – piano, percussion, drums
Kimberley Rew – electric guitar
Davey Lane – electric guitar
Eric Slick – drums
Emma Swift – harmony vocals
Morris Windsor – harmony vocals
Buddy Hughen – harmony vocals
Tristen Gaspadarek – harmony vocals
Anne Lise Frøkedal – harmony vocals

Tracklist:

01. The Shuffle Man
02. The Inner Life Of Scorpio
03. The Feathery Serpent God
04. Midnight Tram To Nowhere
05. Socrates In Thin Air
06. Noirer Than Noir
07. The Man Who Loves The Rain
08. The Sir Tommy Shovell
09. The Raging Muse
10. One Day (It’s Being Scheduled)

Links:

Robyn Hitchcock
Tiny Ghost Records

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POTSA LOTSA XL & YOUJIN SUNG | Gaya https://www.soundcontest.com/potsa-lotsa-xl-youjin-sung-gaya/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=potsa-lotsa-xl-youjin-sung-gaya Tue, 05 Jul 2022 13:00:24 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=56530 Gaya by Potsa Lotsa XL & Youjin Sung Con “Gaya” ritorniamo con piacere a puntare i nostri riflettori sulle sempre interessanti produzioni artistiche che riguardano la sassofonista e compositrice tedesca Silke Eberhard. Stavolta è il turno del suo rinomato progetto Potsa Lotsa in versione XL (un tentetto, contrapposto al quartetto e alla formazione allargata riconducibile […]

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POTSA LOTSA XL & YOUJIN SUNG
Gaya
Trouble In The East Records
2022

Con “Gaya” ritorniamo con piacere a puntare i nostri riflettori sulle sempre interessanti produzioni artistiche che riguardano la sassofonista e compositrice tedesca Silke Eberhard. Stavolta è il turno del suo rinomato progetto Potsa Lotsa in versione XL (un tentetto, contrapposto al quartetto e alla formazione allargata riconducibile alla stessa ragione sociale, in passato votata al song book di Eric Dolphy e a partiture di Giacinto Scelsi) ideato e voluto dalla leader principalmente per eseguire sue composizioni originali.

 

Nella situazione attuale Eberhard allunga però il suo sguardo ispirativo verso l’estremo Oriente, dopo esser rimasta affascinata e folgorata nel 2019 dall’incontro e dalla successiva frequentazione con Youjin Sung, specialista sudcoreana del gayageum, sorta di cetra a 12 o 25 corde (in seta) disposte su un corpo cavo orizzontale risonante. Uno strumento millenario della tradizione musicale coreana, inventato e utilizzato per dar vita a un repertorio, sia popolare sia cortigiano, proprio all’epoca dell’antico regno confederato di Gaya.

Procuratasi un gayageum e iniziatolo a studiare e suonare sotto la guida di Sung (in modalità online, interagendo anche con il suo contralto, durante il periodo pandemico), la sassofonista ha pensato bene di comporci una suite per realizzare in studio questo disco collaborativo che vede la virtuosa musicista coreana nel ruolo di co-protagonista e ospite speciale.

Suddiviso in cinque movimenti identificati secondo la numerazione in lingua coreana, il repertorio riesce, in neanche trenta minuti complessivi, a configurare una vivace commistione di prassi e linguaggi. Si transita infatti con naturalezza dalla musica d’insieme (vedi la finale Daseot) a caratterizzanti sortite individuali (quelle di vibrafono e tromba in Hana e di violoncello, contralto, tenore e clarinetto in Sed), il tutto costellato dalla superba qualità dei dialoghi intessuti tra la duplice valenza ritmico-armonica del gayageum (suonato da Sung anche con l’archetto) e le altre voci strumentali dell’ensemble.

Certo, nella storia del jazz esperimenti e gemellaggi di tal genere non mancano e se volessimo restare nel campo della più stretta contemporaneità potremmo citare numerosi dischi e progetti Tzadik votati alla join-venture tra jazz, improvvisazione e musiche d’Oriente. “Gaya”, tuttavia, rende onore a tale filone e sa brillare di luce propria, sia per la bravura di tutti gli interpreti sia per l’originalità della scrittura, una coppia di fattori che rende l’operazione non un mero esercizio oleografico bensì un raffinato e stimolante corto circuito sonoro all’insegna di una singolare “third stream” correlata alla fascinosa timbrica e alle peculiari scale orientali del gayageum.

Voto: 7,5/10
Genere: Avant Jazz / Chamber Music / World-Folk / Creative Music

Musicisti:

Silke Eberhard – alto sax
Jürgen Kupke – clarinet
Patrick Braun – tenor sax, clarinet
Nikolaus Neuser – trumpet
Gerhard Gschlößl – trombone
Johannes Fink – cello
Taiko Saito – vibraphone
Antonis Anissegos – piano
Igor Spallati – double bass
Kay Lübke – drums
Youjin Sung – gayageum

Tracklist:

01. Ana
02. Dul
03. Sed
04. Ned
05. Daseot

Links:

Silke Eberhard
Trouble In The East Records

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DAVE MURRAY BRAVE NEW WORLD TRIO | Seriana Promethea https://www.soundcontest.com/dave-murray-brave-new-world-trio-seriana-promethea/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=dave-murray-brave-new-world-trio-seriana-promethea Sat, 25 Jun 2022 09:20:55 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=55015 Seriana Promethea by DAVID MURRAY BRAVE NEW WORLD TRIO with Brad Jones and Hamid Drake Pathos, sostanza e ritmo. Sostantivi ben incarnati nelle figure di David Murray, Bradley Jones e Hamid Drake, incredibilmente fianco a fianco in questo “Seriana Promethea” ascritto al Brave New World Trio, ultimo tra le miriadi di progetti varati e guidati […]

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DAVE MURRAY BRAVE NEW WORLD TRIO
Seriana Promethea
Intakt Records
2022

Pathos, sostanza e ritmo. Sostantivi ben incarnati nelle figure di David Murray, Bradley Jones e Hamid Drake, incredibilmente fianco a fianco in questo “Seriana Promethea” ascritto al Brave New World Trio, ultimo tra le miriadi di progetti varati e guidati in oltre quarant’anni di onorata carriera dal magistrale sassofonista e compositore californiano. Almeno in questo caso si deve ringraziare l’ondata pandemica per aver consentito l’incontro (prima su diversi palchi europei e poi finalmente in studio) di tre musicisti di solito fra i più impegnati e giramondo della scena jazzistica internazionale.

 

Andando subito al sodo c’è un punto che è bene chiarire in anticipo: esteticamente e in modo del tutto antitetico rispetto alla ragione sociale (se c’entri anche il noto best-seller di Aldous Huxley non è dato saperlo), il materiale contenuto in “Seriana Promethea” non investiga niente di nuovo, inusuale o singolare.

Cresciuto a pane, impegno e avanguardia, Murray, nel passato, ha già detto il necessario e dimostrato il proprio valore. Nessuno lo può contestare. Negli ultimi vent’anni si è un po’ ammorbidito, ha flirtato con il versante mainstream e coltivato più del necessario (ma con che classe, diciamolo) il fertile orto dei suoni latini e caraibici, ma ad onor del vero non ha mai desistito dalla difesa e salvaguardia (dietro convinzioni anche molto personali) della cultura e delle radici “black” più nobili e avvincenti.

Così, al netto di tutto, “Seriana Promethea” è, sic et simpliciter, un disco di gran buon jazz alla vecchia maniera, notizia questa affatto negativa, vista la personalità e il valore tecnico di un trio che qui ne mantiene sempre alta la qualità senza mai farla scadere nell’ovvio. Murray, in particolare, suona in modo viscerale e diretto, unico come al solito, facendo leva sulla forte presa e cantabilità dei sette brani originali (sugli otto totali) che portano la sua firma.

In gran parte di essi si evince una pregevole osmosi tra jazz e black music, quasi un’ovvia alleanza estetica che tuttavia serve alla causa di un’esperienza d’ascolto fruibile e gradevole, ripagata da belle situazioni free-hard bop (Necktar, Switchin’ In The Kitchen, Am Gone Get Some) intense vibrazioni funk (la pulsante title track) e graffianti carezze in punta di soul (Metouka Sheli e Rainbows For Julia). Dulcis in fundo un’irresistibile rivisitazione di If You Want Me To Stay, hit di Sly Stone che da sola basterebbe a non far più togliere il disco dal vostro lettore.

Infine, riferito già del leader in gran spolvero sia al clarinetto sia al prediletto tenore, resta ovviamente da sottolineare la smagliante prova fornita in questo contesto da Jones e Drake, coppia ritmica impeccabile tanto sul versante del reciproco ascolto quanto su quello delle sortite individuali messe loro frequentemente a disposizione nel repertorio di un album certo non imprescindibile ma comunque notevole.

Voto: 7/10
Genere: Modern Jazz /Black Music / Funk

Musicisti:

David Murray – tenor sax, bass clarinet
Bradley Jones – double bass
Hamid Drake – drums

Tracklist:

01. Seriana Promethea
02. Necktar
03. Metouka Sheli (Ballad For Adrienne)
04. Rainbows For Julia
05. Switchin’ In The Kitchen
06. Anita et Annita
07. If You Want Me To Stay
08. Am Gone Get Some

Links:

Intakt Records

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SPIRITUALIZED | Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space https://www.soundcontest.com/spiritualized-ladies-and-gentlemen-we-are-floating-in-space/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=spiritualized-ladies-and-gentlemen-we-are-floating-in-space Sun, 01 May 2022 14:03:20 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=55022 Ladies and gentlemen we are floating in space by Spiritualized Ebbene sì. La classe non è acqua e quanti ne possiedono anche solo una parte nelle piastrine del DNA prima o poi la mettono in mostra, con buona pace di tutti i detrattori. Dopo aver vissuto per parecchi anni all’ombra dell’egocentrismo di Pete “Sonic Boom” […]

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SPIRITUALIZED
Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space
Dedicated Records
1997

Ebbene sì. La classe non è acqua e quanti ne possiedono anche solo una parte nelle piastrine del DNA prima o poi la mettono in mostra, con buona pace di tutti i detrattori. Dopo aver vissuto per parecchi anni all’ombra dell’egocentrismo di Pete “Sonic Boom” Kember, a partire dal 1990 la statura artistica di Jason “Spaceman” Pierce si erge senza più ostacoli nello splendido progetto personale Spiritualized.

 

Diventato a sua volta maniaco dittatore, l’ex Spacemen 3 sembra avere dalla sua una vena creativa estremamente prolifica (la discografia degli Spiritualized batte in quantità e qualità quelle di Spectrum, Darkside e Alpha Stone messe insieme), a dispetto di un patologico perfezionismo che lo porta a rielaborare e limare fino al parossismo ogni pezzo registrato in studio.

Alle originali intuizioni dei “tre astronauti” Pierce ha saputo aggiungere tappezzerie psicosoniche colorate di liquida psichedelia elettro-space-gospel, aggiornando, con tanto altro ancora , quelle spigolose trame stoogesiane ed elevetorsiane che in tempi non sospetti avevano dato nerbo all’esplosione dell’ala più ruvida del brit-rock primi anni Novanta.

Negli Spiritualized v’è comunque un innegabile rimando al verbo velvettiano, una mal celata devozione alla lezione di Sun Ra, all’acid blues delle migliori formazioni Sixties unito agli sperimentalismi di gente come Suicide, Silver Apples e Can.

Al Nostro bastarono però appena due passi (“Lazer Guided Melodies” del 1992 e “Pure Phase” del 1995) per metter finalmente piede in quell’Eden sonico che è, ancor oggi, “Ladies And Gentlemen We Are Floating In The Space”. Pubblicato nel giugno del 1997, l’album prende titolo da un passaggio de “Il mondo di Sofia”, romanzo filosofico e bestseller dello scrittore norvegese Jostein Gaarder.

Per confezionarlo Pierce impiegò cinque studi di registrazione diversi e una cinquantina fra musicisti e ospiti: nella fattispecie il Balanescu Quartet (già presente in “Pure Phase”), il London Community Gospel Choir e Dr. John (per il cui contributo Pierce si spostò appositamente negli Stati Uniti).

Il risultato di tanta manovalanza è condensato in dodici fantastiche composizioni per un totale di settanta strabilianti minuti di musica, combattuti tra dissonanti armonizzazioni pop e slanci propulsivi sfarinati in un surreale mantra lisergico, chiassoso e delicato al tempo stesso.

L’iniziale title track accoglie subito l’ascoltatore con modi garbati e gentili, sfoderando tra voci e tastiere, una smerigliata melodia dal sapore quasi canterburiano. C’è anche da sottolineare che il brano divenne subito un caso sia per l’intro vocale (quello dell’ ex tastierista Kate Radley, partner professionale e sentimentale di Pierce che due anni prima dell’uscita del disco era convolata a nozze segrete con Richard Ashcroft dei Verve ), sia per il refrain inglobato di I Can’t Help Falling In Love di Elvis Presley, riguardo al quale gli eredi della star fecero causa e ne vietarono l’uso fino al 2009.

La successiva Come Together è animata da accordi di chitarra vigorosi e da una sezione di fiati che regala al tutto una circolare solennità. C’è poi un incredibile trittico, composto da I Think I’m In Love, All Of My Thoughts ed Electricity, nel quale convivono, con controllata potenza espressiva, combinazioni rhythm ‘n’ blues, tradizione soul, graffianti lineee stoogesiane e sprazzi di acida psichedelia texana. A questo gruppo si contrappongono pezzi più vellutati e allucinogeni (Home Of The Brave e Stay With Me) mentre The Individual e No God Only Religion scorrono su stranianti scenografie di rumorismo sonico e vertiginose orchestrazioni space-jazz.

Nella parte finale della raccolta la musica si sposta su coordinate esteticamente più raffinate (il quartetto d’archi che interviene in Broken Heart) e passionali (il gospel-soul di Cool Waves). Ma tutto ciò è ancora nulla in confronto all’orgia di note e idee che scaturiscono dai diciassette minuti di Cop Shoot Cop, un visionario tornado psichedelico di feedback e decibel mitigato, in momenti diversi, dal canto drogato di Pierce e dal piano in chiave night club di Dr. John.

Dopo tanti anni “Ladies And Gentlemen” resta ancora l’apice artistico degli Spiritualized e un “classico” tra i più memorabili e seminali degli anni Novanta. Un’opera epica e affascinante, eternata dalla luce abbagliante dei suoi dodici inscalfibili diamanti.

Voto: 10/10
Genere: Space Rock / Psych-Pop / Chamber / Jazz-Rock / Gospel

Musicisti:

Jason Pierce – vocals, guitars, hammered dulcimer, piano, autoharp
Kate Radley – organ, piano, synthesizer, backing vocals
Sean Cook – bass guitar, harmonica
Damon Reece – drums, percussion, timbales, bells, timpani
John Coxon – guitars, melodica, synthesizer
Ed Coxon – violin
B.J. Cole – pedal steel guitar
Angel Corpus Christi – accordion
Andy Davis – organ
Dr. John – piano, backing vocals #11 (Cop Shoot Cop…)
Simon Clarke – flute, baritone saxophone
Tim Sanders – tenor saxophone
Terry Edwards – tenor saxophone
Roddy Lorimer – trumpet, flugelhorn
Neil Sidwell – trombone
Tim Jones – French horn
The Balanescu Quartet
London Community Gospel Choir

Tracklist:

01. Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space (I Can’t Help Falling In Love)
02. Come Together
03. I Think I’m In Love
04. All Of My Thoughts
05. Stay With Me
06. Electricity
07. Home Of The Brave
08. The Individual
09. Broken Heart
10. No God Only Religion
11. Cool Waves
12. Cop Shoot Cop

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BINKER AND MOSES | Feeding The Machine https://www.soundcontest.com/binker-and-moses-feeding-the-machine/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=binker-and-moses-feeding-the-machine Fri, 29 Apr 2022 14:22:53 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=54965 Feeding The Machine by Binker and Moses Quando esordirono nel 2015 con “Dem Ones” Binker And Moses diventarono un po’ gli White Stripes del nu jazz britannico, risposta tardiva al duo statunitense Corsano-Flaherty che all’austera e rigida formula “sassofono-batteria” si era già immolato sin dal 2000 con l’album “The Hated Music”, proseguendo fino al presente […]

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BINKER AND MOSES
Feeding The Machine
Gearbox Records
2022

Quando esordirono nel 2015 con “Dem Ones” Binker And Moses diventarono un po’ gli White Stripes del nu jazz britannico, risposta tardiva al duo statunitense Corsano-Flaherty che all’austera e rigida formula “sassofono-batteria” si era già immolato sin dal 2000 con l’album “The Hated Music”, proseguendo fino al presente con una pletora di dischi alquanto sotterranei e carbonari.

 

Va da sé che andare avanti, per tanti anni, restando fedeli a tale asset, la corda la tira, eccome. Ti ritrovi a fare concerti e incisioni che spesso diventano solo copie carbone fini a se stesse e non forniscono alcun contributo all’evoluzione della musica a meno che non t’inventi un modo unico e originale di suonare, il che, soprattutto nel campo del jazz, è cosa alquanto difficile e improbabile, vista la folla di campioni innovativi che ha già segnato, da un secolo e oltre, la storia della musica afroamericana.

Di fronte a tale evidenza il duo londinese è subito corso saggiamente ai ripari con il successivo e vieppiù acclamato “Journey To The Mountain Of Forever” (Gearbox, 2017), doppio concept album in cui il piatto della casa offerto nel primo disco veniva abilmente variato nel secondo grazie allo strategico contributo e alternarsi di validissimi ospiti tra cui il trombettista Byron Wallen e il sassofonista Evan Parker.

Ancor più astutamente, con il lancio promozionale di quel progetto (un doppio live set, eseguito nel giugno del 2017 presso il Total Refreshment Centre di Londra) il duo ha vissuto di rendita pubblicando prima “Alive in The East?” (Gearbox, 2018) e poi “Escape The Flames” (Gearbox, 2020), insieme null’altro che il resoconto completo di quella stessa performance.

Ad esser franchi, disseminata e coltivata in tutti questi lavori è una miscela di post-bob, free, spiritual jazz, funk ed esotico quartomondismo sci-fi che all’orecchio di chi s’intende davvero di musica afroamericana può risultare tanto accattivante quanto poco eclatante. Una questione molto simile a quella suscitata oltreoceano dal caso Kamasi Washington. Che i due siano tecnicamente dotati e preparati nessuno lo mette in dubbio, ma il paradosso è che da quando hanno incrociato le loro strade (suonando e affiatandosi nella band della vocalist e producer Zara McFarlane) le cose migliori e più interessanti Binker Golding e Moses Boyd le hanno fatte stando separati.

Basterebbe, infatti, ascoltarsi il paio d’album incisi e autopubblicati dal batterista con il progetto personale Exodus (“Time and Space” del 2016 e “Displaced Diaspora” del 2018) oppure la coppia d’album a proprio nome (“Absolute Zero” del 2017 e l’ancor più eclettico “Dark Matter” del 2020) per ritrovare spunti realmente avventurosi, contaminazioni e idee sperimentali maggiormente in linea con ciò che molti attribuiscono essere i meriti della nuova scena jazz inglese.

Più incline e fedele, invece, al tradizionale solco jazzistico è il percorso solista del sassofonista. Se da un lato abbiamo il piacione repertorio post-bop offerto dall’album “Abstractions Of Reality Past And Incredible Feathers” (Gearbox, 2019), dall’altro vi sono incursioni in territori più audaci effettuate con il pianista Elliot Galvin in “Ex Nihilo” (Byrd Out, 2019) e in trio con John Edwards e Steve Noble nell’album “Moon Day” (Byrd Out, 2021), lavori entrambi votati alla libera improvvisazione più radicale e spettinata di marca europea.

Ora il ritorno in scena del fenomeno Binker And Moses con il nuovo album “Feeding The Machine” (registrato presso i New World Studios di Peter Gabriel con il produttore Hugh Padgham) mette in campo quella (falsa) novità che è il binomio di jazz ed elettronica. Pertanto a cambiare un po’ il sapore alla solita minestra sono qui gli effetti di nastri e loop manipolati in forma di texture e delay da Max Luthert, in arte buon contrabbassista e collaboratore di Boyd nel progetto Exodus nonché già partner della coppia dai tempi di “If You Knew Her” (Brownswood, 2013), secondo album di Zara McFarlane.

Pur essendo già stata indagata e impiegata con ottimi risultati da Boyd nel “Dark Matter” sopra citato, l’opzione elettronica di “Feeding The Machine” ha prevalentemente il ruolo di sostenere ed espandere le possibilità espressive delle ance e delle percussioni. Ciò spiega il titolo particolare dell’album, visto che sono gli strumenti di Golding (soprattutto) e Boyd ad alimentare ed ispirare i dispositivi utilizzati da Luthert e non il contrario.

Pertanto l’ascolto delle sei tracce totalmente improvvisate in scaletta (che insieme non superano la cinquantina di minuti) trasmette subito la netta sensazione di una nuova rotta, magari risaputa benchè esplorativa, ma finalmente più attuale e contemporanea. Di certo sembra che la frequentazione di Binker Golding con gli improvvisatori di razza prima menzionati abbia influito non poco sul suo fraseggio aggiornandone anche il registro espressivo. Se prima erano le voci di Rollins e Coltrane quelle più imitate ora la sua respirazione circolare sembra anche includere e fondere insieme quelle di Marshan Allen, Evan Parker e Jan Garbarek.

Sui gorgheggi elettronicamente trattati delle sue ance, Boyd sparge un ampio spettro d’accenti, colori e soluzioni ritmiche: tempi serrati e sincopati (After The Machine Settles) alternati a beat rocciosi e iperfrazionati (si ascolti Accelerometer Overdose, la traccia forse migliore e più interessante del lotto). I tre musicisti si lasciano e si prendono nel corso di ipnotiche progressioni in crescendo, imboccando sentieri e vortici impregnati d’impalpabili polveri intergalattiche (Active-Multiple-Fetish-Overlord), oppure generando situazioni e finestre con vista su enigmatici panorami spiritual-ambient (vedi le atmosfere squarciate dal suono del soprano nella conclusiva Because Because).

Alcuni hanno pensato d’illustrare le caratteristiche e le sonorità di “Feeding The Machine” accostandolo al tanto chiacchierato e incensato “Promises”, pubblicato lo scorso anno da Floating Points in collaborazione con Pharoah Sanders e la London Symphony Orchestra. A parte l’unico ed estemporaneo momento artistico condiviso da Moses Boyd con Sam Sheperd nel 2016 per la realizzazione del singolo iperfunky “Rye Lane Shuffle” (riproposto due anni dopo, insieme alla b-side Drum Dance, nella track list di “Displaced Diaspora” del progetto Exodus), direi che il paragone e le possibili somiglianze sono abbastanza fuori luogo, considerate anche le sonorità, le modalità realizzative e le finalità estetiche dei due prodotti.

Rispetto a “Promises”, le tracce di questo disco si tuffano in acque differenti ed anche più agitate. Piuttosto, volendo soppesare il valore e i risultati artistici di “Feeding The Machine” restando in terra d’Albione e sullo stesso terreno (jazz improvvisato ed elettronica), vorrei ricordare quanto già fatto e sperimentato meglio in tal senso dagli Spring Heel Jack (altro duo) con gli epocali album “Masses” e “AMaSSED”. Si era all’inizio degli anni Zero, la nuova scena inglese del “future jazz” già esplodeva, muoveva altri bei passi (i Polar Bear, Malcom Catto e gli Heliocentrics … ve li ricordate?) ed era anche più stupefacente.

Voto: 7/10
Genere: Avant Jazz / Impro / Electronic / Ambient

Musicisti:

Binker Golding – soprano sax, tenor sax
Moses Boyd – drums
Max Luthert – live tape loops, electronic effects

Tracklist:

01. Asynchronous Intervals
02. Active-Multiple-Fetish-Overlord
03. Accelerometer Overdose
04. Feed Infinite
05. After The Machine Settles
06. Because Because

Links:

Binker Golding
Moses Boyd
Gearbox Records

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DAVE GISLER TRIO With JAIMIE BRANCH & DAVID MURRAY | See You Out There https://www.soundcontest.com/dave-gisler-trio-with-jamie-branch-david-murray-see-you-out-there/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=dave-gisler-trio-with-jamie-branch-david-murray-see-you-out-there Mon, 04 Apr 2022 16:37:26 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=54222 See You Out There by DAVE GISLER TRIO with Jaimie Branch and David Murray Guarda ancora oltreoceano la progettualità del Dave Gisler Trio. Questo per dire che il nuovo album in studio “See You Out There” vede a fianco della formazione elvetica (solita line-up con la chitarra elettrica del leader, il contrabbasso di Raffaele Bossard […]

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DAVE GISLER TRIO With JAIMIE BRANCH & DAVID MURRAY
See You Out There
Intakt Records
2022

Guarda ancora oltreoceano la progettualità del Dave Gisler Trio. Questo per dire che il nuovo album in studio “See You Out There” vede a fianco della formazione elvetica (solita line-up con la chitarra elettrica del leader, il contrabbasso di Raffaele Bossard e la batteria di Lionel Friedli) non uno, ma ben due pesi massimi statunitensi: la battagliera trombettista Jaimie Branch (già special guest del precedente “Zurich Concert” di un paio d’anni fa) e il veterano, ma sempre incontenibile, sassofonista David Murray.

 

Che la coppia non faccia da semplice specchio per le allodole lo si capisce sin dall’iniziale ripresa del cavallo di battaglia Rabbits On The Run (qui ribattezzato Bastards On The Run). Uno schiaffo free-rock che lascia il livido e che mostra nella sua ipercinetica e concitata esecuzione una sconvolgente intesa tra i musicisti. In Can You Hear Me? la tromba sinuosa e acutissima di Branch stempera il greve e rumoristico gioco della sei corde di Gisler, mentre il frastagliato fondale percussivo di Friedli si placa nel finale per lasciar spazio ad un frenetico e picchiettante assolo di Bossard.

Dopo la straniante e atmosferica title track (ricca di effetti e diafane serpentine di tromba) il disco procede con il polimofirsmo estetico di Vision (blues ballad moderna che all’improvviso muta passo per tessere un refrain chiassoso e convulso) e le contorsioni ritmico-armoniche della breve Get It Done. Nella successiva Medical Emergency le corrosive tonalità granulari e dissonanti della sei corde di Gisler si mescolano al viscerale pathos blues lanciato in orbita da Murray e Branch mentre in What Goes Up (altro ripescaggio dal vecchio repertorio, come la finale e blueseggiante Better Don’t Fuck With A Drunken Sailor) il quintetto si destreggia in un sostenuto e tellurico jazz-rock di chiara impronta Downtown.

Viceversa, dalle criptiche e cupe architetture ambient di High As A Kite (in cui la tromba irradia affascinanti echi hasselliani) si transita ai caustici tempi dispari e ai contrappunti di Get A Döner, cornice ideale per spiritati botta e risposta tra Branch e Gisler. Spesso il suono sghembo, spurio e ruvido di quest’ultimo (perno, insieme a Bossard, anche dei Pilgrim di Christoph Irniger) incrocia la lezione di fantasisti originali quali Terrie Ex, David Torn (responsabile del missaggio dell’album), Nels Cline, Sonny Sharrock e Robert Quine. Se per costoro avete un debole allora “See You Out There” è proprio il genere di disco che fa per voi.

Voto: 7/10
Genere: Avant Jazz / Free / Impro Rock

Musicisti:

Dave Gisler – guitar
Raffaele Bossard- double bass
Lionel Friedli – drums
Jaimie Branch – trumpet
David Murray – tenor sax

Tracklist:

01. Bastards On The Run
02. Can You Hear Me?
03. See You Out There
04. The Vision
05. Get It Done
06. Medical Emergency e
07. What Goes Up …
08. High As A Kite
09. Get A Döner
10. Better Don’t Fuck With A Drunken Sailor

Links:

Dave Gisler
Intakt Records

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ALEXANDER HAWKINS MIRROR CANON | Break A Vase https://www.soundcontest.com/alexander-hawkins-mirror-canon-break-a-vase/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=alexander-hawkins-mirror-canon-break-a-vase Mon, 28 Feb 2022 13:03:43 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=53435 Break A Vase by ALEXANDER HAWKINS MIRROR CANONRicco di citazioni, suggestioni e dediche (Derek Walcott, J. S. Bach, Robert Creeley, Eduardo Galeano, Emily Dickinson e Antonio Gramsci), “Break A Vase” è l’album con cui Alexander Hawkins si propone alla testa di una formazione che nella memoria dei suoi estimatori suona inedita solo nella ragione sociale […]

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ALEXANDER HAWKINS MIRROR CANON
Break A Vase
Intakt Records
2022

Ricco di citazioni, suggestioni e dediche (Derek Walcott, J. S. Bach, Robert Creeley, Eduardo Galeano, Emily Dickinson e Antonio Gramsci), “Break A Vase” è l’album con cui Alexander Hawkins si propone alla testa di una formazione che nella memoria dei suoi estimatori suona inedita solo nella ragione sociale Mirror Canon. Difatti il contrabbassista Neil Charles e il batterista Stephen Davis sono già noti elementi del trio del pianista e compositore oxoniense. Parimenti familiari accanto al leader sono il chitarrista Otto Fischer e l’acclamato clarinettista e sassofonista Shabata Hutchings, insieme nell’ensemble titolare di “Step Wide, Step Deep” (Babel, 2014), mentre il percussionista di origine nigeriana Richard Olátúndé Baker ha condiviso con Hawkins l’esperienza nella Step Ahead Band di Mulatu Astatke, artefice nel 2013 del memorabile “Sketches Of Ethiopia”.

 

Con tali forze al proprio fianco, Hawkins allestisce un repertorio di dieci brani originali che fannno di “Break A Vase” un disco di ampia gittata stilistica e tecnica, sicuramente tra i più godibili ascoltati in questo primo scorcio dell’anno. L’iniziale e brevissima The Perfect Sound Would Like To Be Unique pare quasi un manifesto della direttrice seguita con pertinacia da questo raffinato e preparato musicista. È il primo di tre episodi che lo vedono da solo al pianoforte. Gli altri due, la magnifica title track e la puntillistica Even The Birds Stop To Listen (quest’ultima condivisa in chiave quasi atonale con le percussioni metallofone di Olátúndé Baker) si trovano rispettivamente nella parte centrale e alla fine del disco.

Il sestetto al completo manovra con impressionante precisione sulle vigorose trame melodiche in contrappunto di Stamped Down, Or Shovelled, riproponendosi con altrettanta classe e perfezione in Generous Souls e Stride Rhyme Souls (il momento di più alta frenesia poliritmica e improvvisativa della raccolta, segnato nella parte finale da un ricercato dialogo tra chitarra, batteria e percussioni). Altrove le voci intorno al piano si restringono. Sun Rugged Billions (divisa tra radicalità e ancestralità) vede all’opera il flauto di Hutchings insieme al leader accompagnato da Charles e Davis. Stessa compagine anche per la braxtoniana Domingada Open Air e l’elegante Faint Making Stones, ma con Hutchings che passa rispettivamente dal soprano al tenore, mentre nell’ascensionale trasfigurazione tropicalista di Chaplin In Slow Motion il trio eleva la serica qualità propulsiva della composizione grazie alle campiture ritmiche di Olátúndé Baker.

In conclusione “Break A Vase” offre, con voci e opzioni strumentali diverse, buona parte del vasto catalogo estetico di riferimento di Alexander Hawkins, interprete in continua evoluzione sulla scorta di un pianismo sempre creativo ma altrettanto rigoroso e attento ai dettagli.

Voto: 8/10
Genere: Avant Jazz / Creative Music

Musicisti:

Alexander Hawkins – grand piano, upright piano, sampler
Shabaka Hutchings – flute, soprano sax, tenor sax
Otto Fischer – electric guitar
Neil Charles – acoustic bass guitar, double bass
Stephen Davis – drums
Richard Olátúndé Baker – adamo (talking drum), percussion

Tracklist:

01. The Perfect Sound Would Like To Be Unique
02. Stamped Down, Or Shovelled
03. Sun Rugged Billions
04. Generous Souls
05. Faint Making Stones
06. Break A Vase
07. Chaplin In Slow Motion
08. Domingada Open Air
09. Stride Rhyme Gospel
10. Even the Birds Stop To Listen

Links:

Alexander Hawkins
Intakt Records

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FRED FRITH TRIO With LOTTE ANKER & SUSANA SANTOS SILVA | Road https://www.soundcontest.com/fred-frith-trio-with-lotte-anker-susana-santos-silva-road/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=fred-frith-trio-with-lotte-anker-susana-santos-silva-road Wed, 05 Jan 2022 13:14:40 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=53407 Dal forte impatto sonico e sensoriale, “Road” vede il decano chitarrista e compositore Fred Frith di nuovo alla testa del suo trio statunitense con i soliti Jason Hoopes (basso elettrico) e Jordan Gleen (batteria). Nella seconda parte di questo doppio album la band però si espande a quartetto, accogliendo tra i ranghi sia la trombettista […]

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FRED FRITH TRIO With LOTTE ANKER & SUSANA SANTOS SILVA
Road
Intakt Records
2021

Dal forte impatto sonico e sensoriale, “Road” vede il decano chitarrista e compositore Fred Frith di nuovo alla testa del suo trio statunitense con i soliti Jason Hoopes (basso elettrico) e Jordan Gleen (batteria). Nella seconda parte di questo doppio album la band però si espande a quartetto, accogliendo tra i ranghi sia la trombettista danese Lotte Anker sia la sassofonista portoghese Susana Santos Silva, ciascuna cofirmataria insieme al leader del paio di brani a testa che le vede protagoniste.

 

Tre diverse performance dal vivo, estrapolate da un tour americano ed europeo effettuato nel 2019, documentano qui lo stato dell’arte di Frith in un poderoso flusso elettroacustico che sa essere in egual misura astratto e diretto. Nel primo disco ascoltiamo il trio alle prese con i sette mo(vi)menti di Lost Weekend, un mosaico con tessere scelte tra scrittura e libera improvvisazione che trascende con navigata maestria canoni e generi di varia specie.

Le trame, per lo più ruvide e ritmicamente più ipnotiche, fanno leva su disarticolazioni dub-rock (Lost Weekend 1) e sporie free-noise-ambient (Lost Weekend 2) in cui il chitarrista diluisce e affastella, mano a mano, arpeggi incantatori, grattugiamenti spigolosi nonché fraseggi delicati e ovattati giochi armonici in contrasto con i propri vocalizzi isterici e allucinati (Lost Weekend 3).

Viceversa, una sperimentalità più introversa e conclamata, con spettacolari effetti di contorno espressi da basso e batteria, serpeggia nei vibranti dodici minuti di Lost Weekend 4 (anch’essa trafitta da scure e ossessive pugnalate dub) e nei sette minuti di Lost Weekend 6, deputati a erigere una magnetica fissità inquietante e patibolare. L’encore finale di Lost Weekend 7 ribadisce solo la duplice valenza apollinea e dionisiaca di un suono al tempo stesso proteiforme e creativamente cangiante, ancora più avvincente quando nella seconda metà dell’opera intervengono i borborigmi e le sfrigolanti evoluzioni della tromba di Santos Silva (Color Of Heat e Color Of Heart) oppure i ricercati e lancinanti toni agrodolci del sax di Lotte Anker (The Trees Speak e Sinking In).

In conclusione, imbracciata o stesa in orizzontale che sia, la sei corde di Fred Frith esprime in “Road” la rara capacità di far convergere improvvisazione, composizione, dialogo e prassi tecnica verso un punto di fuga sempre chiaro e intellegibile. Qualità espresse in modo fecondo anche altrove, nell’anno da poco alle spalle, sia affianco a Ikue Mori (nell’album “A Mountain Doesn’t Know It’s Tall”, sempre targato Intakt) sia soprattutto nei tre mastodontici e preziosi volumi compilativi di materiali editi ed inediti, pubblicati tra il 2001 e il 2020 con la personale etichetta Fred Records.

Voto: 8/10
Genere: Impro / Experimental Rock / Avant Jazz / Creative Music

Musicisti:

Fred Frith – guitar, voice
Jason Hoopes – bass
Jordan Glenn – drums
Lotte Anker – saxophones # 2-02, 2-03
Susana Santos Silva – trumpet # 2-01, 2-04

Tracklist:

CD1
1-01. Lost Weekend 1
1-02. Lost Weekend 2
1-03. Lost Weekend 3
1-04. Lost Weekend 4
1-05. Lost Weekend 5
1-06. Lost Weekend 6
1-07. Lost Weekend 7

CD2
2-01. Color Of Heat
2-02. The Trees Speak
2-03. Sinking In
2-04. Color Of Heart

Links:

Intakt Records

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WILLIAM PARKER | Mayan Space Station https://www.soundcontest.com/william-parker-mayan-space-station/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=william-parker-mayan-space-station Sat, 25 Dec 2021 07:00:38 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=53369 Mayan Space Station by William ParkerNella duttile e assai consistente discografia di William Parker “Mayan Space Station” è un disco che spicca e fa specie a sé. Si tratta, infatti, del primo progetto “guitar trio” guidato e condotto in sala d’incisione dal veterano compositore e contrabbassista newyorkese. La scelta di affidarsi per l’occasione alla sei […]

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WILLIAM PARKER
Mayan Space Station
AUM Fidelity Records
2021

Nella duttile e assai consistente discografia di William Parker “Mayan Space Station” è un disco che spicca e fa specie a sé. Si tratta, infatti, del primo progetto “guitar trio” guidato e condotto in sala d’incisione dal veterano compositore e contrabbassista newyorkese. La scelta di affidarsi per l’occasione alla sei corde bollente della giovane Ava Mendoza non poteva essere più indovinata e felice. Tra studi, collaborazioni di peso e progetti personali (in solo o con gli Unnatural Ways) la chitarrista d’origini californiane (da diversi anni trasferitasi a Brooklyn) protrebbe esser ben definita come l’alter ego al femminile di Marc Ribot se non degna concorrente e antagonista della poco più anziana Mary Halvorson.

 

Se poi date uno sguardo alla sezione ritmica, costituita dal leader e dal batterista Gerald Cleaver, allora potreste già immaginare nei timpani la caustica e graffiante sostanza sonora che deborda da “Mayan Space Station”. Un album che fin dalla splendida copertina riporta alla mente gli spazi arcani e intergalattici frequentati e rivelati da sua immensità Sun Ra. Mondi magici e misteriosi che la peculiare impronta spirituale di Parker decide stavolta di investigare dando vita ad un fenomenale cortocircuito elettrico e ritmico capace di far esplodere i più robusti fusibili di matrice free, acid blues e avant rock.

Piccante, decisa e molto aromatica come vuole il titolo, l’iniziale Tabasco chiama subito in causa il pulsante lavoro in tandem di Parker e Cleaver. Un giro mantrico e ossessivo che però diresti anche piuttosto swingante, contrapposto all’opera creativamente disturbante e destrutturante di Mendoza. Ascoltare Parker che percuote e slappa le corde dello strumento con vigore quasi post-punk non è cosa comune nei suoi progetti. Le sei composizioni da lui firmate per questo album stratosferico sguazzano in una melma lavica tanto cocente quanto cosmico-lisergica. In tale contesto la chitarra elettrica di Mendoza rappresenta il perno di scorribande sonore stilisticamente mutevoli, ben sorrette dalle solide eppur versatili manovre percussive di un Cleaver in palese stato di grazia.

Accomunate invece da ritmi sincopati e accenti centro-sudamericani, Rocos Rojas, Domingo e Mayan Space Station dispensano in chiave impro-jam assoli, riff e registri chitarristici su stadi alterati tipici di axeman quali Santana, Jimmy Page, Hendrix, Sonny Sharrock e Robert Quine.

Al contrario, sperimentalmente distorta, cacofonica e irregolare, Canyon Of Lights imbastisce un concitato dialogo tra l’archetto del leader, i piatti di Cleaver e le metallurgiche escursioni à la Keiji Haino di Mendoza mentre nella conclusiva The Wall Tumbles Down il trio argomenta brillantemente tra post-bob e psych-space-rock, lasciando alla fine il desiderio e la speranza che tale capolavoro d’album possa avere un altrettanto degno successore nel prossimo futuro.

Voto: 9/10
Genere: Free Avant Rock / Creative Music

Musicisti:

Ava Mendoza – guitar
William Parker – double bass
Gerald Cleaver – drums

Tracklist:

01. Tabasco
02. Rocas Rojas
03. Domingo
04. Mayan Space Station
05. Canyons Of Light
06. The Wall Tumbles Down

Links:

AUM Fidelity Records

William Parker

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