Diego Librando, Autore presso Sound Contest https://www.soundcontest.com/author/as0478052ac/ Musica e altri linguaggi Mon, 25 Mar 2024 09:11:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 ALDO FARIAS | Sei corde tra tradizione e modernità https://www.soundcontest.com/aldo-farias-sei-corde-per-tenere-insieme-epoche-e-luoghi-diversi/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=aldo-farias-sei-corde-per-tenere-insieme-epoche-e-luoghi-diversi Sat, 23 Mar 2024 16:01:56 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=64495 La musica del chitarrista napoletano Aldo Farias rappresenta il baricentro perfetto tra differenti tradizioni, punto d’incontro ideale tra musica nord europea, sonorità del bacino del mediterraneo e tradizione afro-americana d’oltreoceano. Approccio jazzistico e gusto melodico concorrono ad esaltare la cantabilità tipica della nostra storia musicale. Un lirismo che sa essere solare o intimista, comunque sempre […]

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La musica del chitarrista napoletano Aldo Farias rappresenta il baricentro perfetto tra differenti tradizioni, punto d’incontro ideale tra musica nord europea, sonorità del bacino del mediterraneo e tradizione afro-americana d’oltreoceano. Approccio jazzistico e gusto melodico concorrono ad esaltare la cantabilità tipica della nostra storia musicale. Un lirismo che sa essere solare o intimista, comunque sempre capace di esprimere ogni tipo di sentimento e emozione. Quella del chitarrista partenopeo è una ricerca continua, evidente in ogni nuova proposta discografica delle tante prodotte nel corso della sua lunga carriera.

 

Jazz mediterraneo, oltre a richiamare uno dei tuoi primi dischi, continua ad essere, a 30 anni da quell’album (“Jazz Méditerranée”), un modo per definire la tua musica. Io penso che tu sia stato uno dei primi a Napoli e in Italia a manifestare una grande maturità e lungimiranza nel modo di intendere il jazz. Non tanto linguaggio da assecondare pedissequamente, quanto più “grammatica” da acquisire per esprimere il tuo mondo culturale e la tua storia musicale. Questo emerge non solo nella scelta dei musicisti, ma anche del repertorio.
Ho iniziato a suonare jazz ascoltando tutta la tradizione della musica afro-americana ed ho avuto il piacere di suonare con musicisti come Steve Grossman, Bob Berg, Richie Cole, Steve Turre, Mike Mainieri, Frank Lacy, Steve Slagle e tanti italiani come Franco Cerri, Gianni Basso, Massimo Urbani, Stefano Bollani, Fabrizio Bosso, Stefano Di Battista. Tutte personalità che hanno contribuito a sviluppare il jazz in Italia e all’estero. Contemporaneamente ho avuto un approccio con questa musica confrontandomi con le mie radici musicali, sia stilisticamente che nella composizione, portando avanti negli anni diversi progetti e pubblicazioni con un repertorio di brani originali che risentono di tutta la musica europea.

 

Scorrendo la tua discografia emergono chiari periodi ed esperienze. Raccontaci delle tue formazioni, dal quintetto “storico” con i sodali Franco De Crescenzo e Angelo Farias fino alla nascita dell’“esperimento” con gli altri tre gemelli di strumento.

Con Angelo e Franco ho condiviso per tanti anni, molti progetti musicali e discografici che hanno visto la partecipazione di Bob Berg, Ilir Bakiu, Roberto Gatto e tanti altri, con l’idea di cercare un’identità musicale tra le radici della musica afro-americana e la nostra tradizione.

Il progetto “Contemporary Jazz Guitar” con i miei colleghi Antonio Onorato e Pietro Condorelli, ai quali sono legato da una lunga amicizia, è stato molto interessante perché ci ha permesso di esplorare nuove sonorità lavorando su composizioni originali e interpretazioni di standards dando vita a due pubblicazioni discografiche per la Wide Sound e tanti concerti insieme ad uno dei più grandi chitarristi europei Franco Cerri.

 

Rispetto a quest’ultima formazione composta da sole chitarre, probabilmente l’essere portatori di stili differenti ha paradossalmente aiutato l’amalgama del gruppo. Ma immagino sia stato molto stimolante l’arrangiamento delle composizioni.

Sicuramente, l’aspetto interessante è stato proprio quello di scambiarci idee musicali e compositive confrontandoci anche con Franco Cerri che apparteneva ad un’altra generazione.

Aldo Farias con Franco Cerri

Arriviamo all’ultima pubblicazione. A dieci anni da “Different Ways” esce per la Skidoo Records “Open Quartet”. Ancora una nuova formazione, nata in seno al Conservatorio dove insegni. Quante cose sono cambiate in questi dieci anni?

Il disco “Open Quartet” nasce dalla profonda amicizia nata all’interno del Dipartimento di Musica Jazz del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino, dove tutti noi insegniamo, e dove parallelamente all’attività didattica abbiamo svolto tanta attività concertistica che ci ha permesso di sviluppare un’interessante affinità stilistica. Il disco è stato registrato interamente live in Auditorium del Conservatorio.

 

Come tua abitudine il disco contiene brani originali e classici arrangiati in maniera originale. Ci vuoi parlare delle composizioni? Beat 61 e One for Bud sono tue composizioni. Waltz for a poet di Mario Nappi sembra composta apposta per la tua chitarra.

Quasi tutte le mie pubblicazioni contengono sempre composizioni originali, per me l’aspetto compositivo è importante perché mi permette di dare un’identità personale alle composizioni che suono. Beat 61 e One For Bud sono due miei brani, il primo è un brano modale ispirato dalla musica di John Coltrane, suonato con un approccio ritmico moderno, mentre il secondo è un tributo ad uno dei più grandi pianisti e compositore del periodo be bop, Bud Powell. Waltz for a poet invece è un brano di Mario Nappi che dal primo momento che l’ho suonato mi ha ispirato per la sua naturalezza armonica e melodica.

Poi grandi classici come My Ideal o Here’s that rainy day in una versione davvero rivitalizzata dalla scelta di un “tempo dispari”.

Quando suono degli standards mi piace sempre caratterizzarli per dargli un’impronta personale, in questo caso su Here’s that rainy day, brano di Van Heusen che amo tanto, mi è venuta l’idea di cambiare il tempo trasformandolo in 5/4 in modo da avere soluzioni ritmiche improvvisative diverse, mentre a My Ideal, che nasce come ballad per la sua struttura armonica ricca di accordi di settima dominante, mi piaceva dargli un carattere blues.

 

Hai sempre affiancato all’attività concertistica quella didattica. Tanto è cambiato anche nei Conservatori rispetto all’insegnamento della musica jazz negli ultimi 30 anni. Dall’unico insegnante che doveva compiere l’impresa titanica in 12 ore settimanali di plasmare con il suo sapere nuove generazioni di jazzisti, all’ultima organizzazione in cui i diversi aspetti di questo genere vengono trattati separatamente da docenti dedicati. Insomma siamo finalmente arrivati a quello di cui parlavamo all’inizio? L’insegnamento del jazz o, meglio, lo studio del jazz, è finalmente visto come l’acquisizione di una “grammatica” universale per esprimere la contemporaneità?

Negli anni l’insegnamento del jazz nei conservatori ha avuto un’evoluzione continua, infatti nel tempo si sono consolidati dei Dipartimenti di Musica Jazz dove, oltre all’insegnamento del proprio strumento, si sono sviluppate discipline come Arrangiamento, Composizione, Video Scrittura, Musica d’insieme e tante altre che hanno permesso agli studenti di confrontarsi su più territori in modo da seguire le proprie inclinazioni e acquisire una preparazione più completa per quello che riguarda la grammatica del jazz. Io penso che il vero problema che oggi hanno gli studenti è che ci sono pochi spazi (sale da concerto, club, ecc.) dove praticare e fare esperienze in modo da costruirsi la propria carriera musicale. In altri paesi esiste una forte componente istituzionale sia per le orchestre di jazz che per gli spazi dedicati all’ attività concertistica.

 

Che mi dici, invece, dell’idea di gestire, insieme a tuoi esimi colleghi, un piccolo jazz club nel centro storico di Napoli? A chi è venuta l’idea e da quale esigenza nasce? E soprattutto, se è ancora viva, qual è la finalità?

Proprio in riferimento a quello che ti dicevo prima, negli anni abbiamo cercato presso le istituzioni della nostra città (Comune, Municipalità, ecc.) uno spazio per la nostra musica. Ad oggi non siamo riusciti ad avere risposte concrete, per cui autonomamente con l’associazione JAM (Jazz Music Art) ci siamo appoggiati a spazi esistenti come la cappella dei Musici, la Cappella Pappacoda e altri luoghi nel centro storico adatti a tenere concerti. Chiaramente noi speriamo anche per le nuove generazioni. Visto il forte interesse per i Dipartimenti di Jazz nei Conservatori della nostra Regione, speriamo ci possa essere uguale interesse per la realizzazione di spazi culturali per i futuri musicisti di jazz.

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TONY TAMMARO | La notte dell’epica tamarra https://www.soundcontest.com/tony-tammaro-lepica-tamarra-fa-il-giro-del-mondo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=tony-tammaro-lepica-tamarra-fa-il-giro-del-mondo Tue, 05 Dec 2023 22:21:27 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63107 Otto album all’attivo più una raccolta, un numero non quantificabile di “cassette” vendute, tre film, un programma televisivo dagli ascolti altissimi e, udite udite, a consolidare una carriera senza bassi, un’autobiografia scritta a quattro mani con il professor Ignazio Senatore per Graus Edizioni. Tony Tammaro, figlio d’arte, è prima dj nei più rinomati locali partenopei, […]

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Otto album all’attivo più una raccolta, un numero non quantificabile di “cassette” vendute, tre film, un programma televisivo dagli ascolti altissimi e, udite udite, a consolidare una carriera senza bassi, un’autobiografia scritta a quattro mani con il professor Ignazio Senatore per Graus Edizioni. Tony Tammaro, figlio d’arte, è prima dj nei più rinomati locali partenopei, carriera per la quale rinuncia ad un avviato lavoro nell’editoria. Poi cantautore e narratore dell’epica tamarra in the world.

 

(Più di) Trent’anni di carriera vissuti intensamente. Ma com’è cominciato tutto? Soprattutto il tuo illustre genitore che pensava di Tony Tammaro?
Mio padre (Egisto Sarnelli, chansonnier di classici napoletani e di canzoni francesi) possedeva un’immensa libreria su un unico argomento: “la canzone classica napoletana”. Sono cresciuto leggendo i testi e ascoltando le musiche dei grandi autori del passato. A un certo punto non ne ho potuto più di leggere e ascoltare gli altri e ho cominciato a scrivere le mie cose collocandomi nel settore di nicchia della “macchietta napoletana” e mi è andata così bene che ho cominciato a superare il genitore in popolarità. A mio padre le mie canzoni non piacevano, ma poi se n’è fatta una ragione, tanto è vero che curò la regia del mio primo sold out al Palapartenope di Napoli 30 anni fa.

Sei dovuto passare più volte per tutti i comuni campani prima di fare il “salto” in Italia. Ma da lì sei volato a Parigi, Lisbona e dove ancora? Ti mancano solo Mosca e San Pietroburgo per superare Al Bano…

Per l’Est ci stiamo attrezzando. Alla fine a me basta un pubblico di meridionali per organizzare uno spettacolo all’estero e i meridionali sono ovunque, probabilmente anche a Mosca.

Non sono mancate le lectio magistralis in diverse Università italiane. Sei stato invitato come “tamarrologo” o per quali altre competenze o motivazioni?

In quelle circostanze ho parlato dei più svariati argomenti: della filiera produttiva della musica leggera alla facoltà Economia e Commercio di Capua o del mondo della pirateria musicale alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli. Alla facoltà di Lettere della Federico II parlai della poetica e dell’uso delle rime nella canzone classica napoletana.

Ti sei mai chiesto quali sono le ragioni del tuo successo? Nel senso, come fanno le tue canzoni a mobilitare quasi tre generazioni di insospettabili “tamarri”? Può dipendere dalla tua capacità di analizzare i comportamenti al limite del patologico dell’essere umano?

Ho cercato anch’io spesso le motivazioni di questo fenomeno. Da un lato c’è il fatto che canto in dialetto o, meglio, in lingua napoletana e a noi napoletani fa sempre piacere ascoltare la nostra lingua piuttosto che l’italiano. In più c’è il fatto che ognuno di noi può riconoscersi in certi episodi di vita vissuta che ho narrato, tipo quello del portiere che da bambini ci bucava il pallone mentre giocavamo in cortile o delle tante frittatine di maccheroni che abbiamo consumato in spiaggia. Infine, c’è che una sana risata ogni tanto fa bene a tutti.

Come si è evoluta la figura del “tamarro” dall’inizio della tua carriera? Dalla frittata di maccheroni al SUV che trasformazione c’è stata? Io preferivo il tamarro del passato, più genuino e meno violento…

Assolutamente lo preferivo anch’io. Oggi il tamarro è spesso violento e imbottito di droga. C’è stata un’involuzione del tamarro.

Anni fa traevi ispirazione per i tuoi testi da quel teatro a scena aperta che è Napoli, girovagando con la “visparella” e lasciandoti ispirare da quello che ti accadeva intorno. Oggi basta fare un giro su TikTok (purtroppo) per trovare una realtà che supera ogni fantasia. Quanto utilizzi i social per sondare usi e costumi dei tuoi personaggi e delle tue ambientazioni?

I social li uso tantissimo. Passo quasi sei ore al giorno a rispondere ai miei fans e a documentarmi. Da Facebook in poi, non ho più bisogno di andare in giro con la vespa per cercare personaggi e situazioni da descrivere nelle canzoni. Li trovo belli e pronti sullo schermo del mio smartphone.

L’anno scorso hai festeggiato i 30 anni di carriera (più o meno) con la Notte dei Tamarri, mega evento organizzato nei minimi dettagli al Palapartenope di Napoli. Quest’anno la festa raddoppia con la Notte dei Tamarri 2. Che spettacolo sarà quello del 27 dicembre? E soprattutto la Notte dei Tamarri è diventata ormai una festa tra le feste comandate a tutti gli effetti?

Quest’anno sarà una specie di “Tammaro and friends”. Tantissimi colleghi (non necessariamente tamarri) verranno a trovarmi. In più avrò degli sgargianti costumi di scena e ho fatto preparare una “bomboniera” da regalare a tutti i 3200 spettatori.

Come si pone il tuo personaggio nei confronti del nostro essere donna oggi? Ah no, scusa, questa era per un altro Maestro! A proposito, a quando una “Patrizia” in jazz…? Ormai tutto quello che è “…in jazz” fa tendenza…

Beh, col jazz mi sono cimentato e ho anche suonato discretamente la chitarra semiacustica (quella da jazzista) nel brano ‘E quatt’a notte contenuto nell’album “Yes I cant” del 2010.

Un grande in bocca al lupo per la Notte dei Tamarri e massimo rispetto per tua carriera!

Crepi il lupo, così la lupa resta vedova e si prende la pensione di reversibilità.

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PAOLO FIORENTINO | L’Arte è un rischio che tutti dovrebbero correre https://www.soundcontest.com/paolo-fiorentino-larte-e-un-rischio-che-tutti-dovrebbero-correre/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=paolo-fiorentino-larte-e-un-rischio-che-tutti-dovrebbero-correre Sat, 04 Nov 2023 18:26:50 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62738 Paolo Fiorentino, artista poliedrico e psicologo, porta in scena il 10 novembre a Napoli un inedito spettacolo di teatro-canzone in cui esplora i temi della libertà, dell’amore e della difficile ricerca della verità. “Sott’ ’a maschera”, in programma all’Auditorium Salvo d’Acquisto, in via Morghen 58 al Vomero, è un lavoro complesso e affascinante. Abbiamo parlato […]

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Paolo Fiorentino, artista poliedrico e psicologo, porta in scena il 10 novembre a Napoli un inedito spettacolo di teatro-canzone in cui esplora i temi della libertà, dell’amore e della difficile ricerca della verità. “Sott’ ’a maschera”, in programma all’Auditorium Salvo d’Acquisto, in via Morghen 58 al Vomero, è un lavoro complesso e affascinante. Abbiamo parlato di questo e tanto altro con l’autore, disponibile e travolgente.

foto di BOSK

 

Partiamo dalla tua formazione musicale?
Per quanto mi riguarda credo sia riduttivo parlare di formazione musicale preferisco parlare di formazione artistica.  Pertanto, diventare psicoterapeuta così come aver studiato filosofia, scenografia e drammaturgia ha influito sulla mia identità di musicista. Fare l’artista per me implica una formazione globale. L’arte è un rischio, ma anche un’opportunità di crescita esistenziale, se viene fatto un lavoro su di sé. Dedicarsi solo all’apprendimento di una pratica artistica trascurando la propria personalità non porta lontano.

Come psicoterapeuta ho avuto in terapia molti artisti, affermati e meno noti, scrittori, pittori, musicisti, attori, ballerini ecc. con in quali ho avuto un un’intesa immediata. Molti di loro, per quanto abili nella loro arte, si sentivano bloccati per questioni legate alla loro vita e non riuscivano ad usare l’arte come cura di sè. Non sapevano gestire la loro ‘musa’ ed erano travolti dall’angoscia. Non credo che l’arte debba essere vissuta come un tormento, un destino tragico come accadeva ai romantici o ai musicisti del club dei 27. Pensa ad Amy Winehouse grande cantante con una dote vocale strabiliante che alla fine ha scritto una canzone, Rehab, contro la comunità di riabilitazione che l’aveva accolta per curarla dalle dipendenze. Cosa è successo? Non ha trovato un ascolto nei professionisti che l’hanno accolta? Non ha voluto curarsi per paura di perdere la sua capacità creativa? Molti artisti la pensano in questa maniera. Si affezionano alla sofferenza la usano come carburante per poi rovinarsi la vita.  Preferisco gli artisti che fanno dell’arte un momento di evoluzione della loro anima.

Comunque, scusa la digressione. Se vuoi sapere più semplicemente come ho imparato a suonare posso dirti che, come chitarrista, sono prevalentemente un autodidatta. Ho invece approfondito lo studio del canto e della vocalità. La mia prima maestra è stata Genny Sorrenti, voce e leader del gruppo progressive dei Saint Just, al quale in origine partecipava Bob Fix, oggi straordinario ingegnere del suono, che ha masterizzato i miei due dischi. Genny mi ha insegnato i rudimenti tecnici, la respirazione, l’impostazione del diaframma ecc. e lentamente mi ha introdotto al canto lirico che in seguito ho perfezionato.

Che rapporto c’è tra il (Paolo) musicista e lo psicologo? Quanto l’uno ispira (o limita) l’altro?
Sono sempre la stessa persona che vive linguaggi ed esperienze diverse. La psicoterapia è una scienza, ma è anche un’arte che non può essere standardizzata, perché ogni persona è unica e differente da un’altra; allo stesso modo la musica è una cura che produce effetti ansiolitici e antidepressivi. Ci sono studi che lo dimostrano ampiamente. Pensa alla musicoterapia o all’art therapy più in generale.  Siamo abituati a immaginare le nostre vite come vite specializzate per raggiungere risultati competitivi e performanti in un ambito particolare. Non possiamo essere persone con più talenti, questo può confondere chi tende a farsi un’immagine stereotipata delle persone. Per me non è così. Ho una personalità eterogenea.

Ciò che tiene insieme, l’artista e il clinico nel mio mondo interno è l’amore per la conoscenza e l’interesse per gli altri. L’arte alimenta la mia pratica clinica e quest’ultima è fonte d’ispirazione soprattutto quando mi confronto con storie di persone che mi sembrano avere un valore quasi universale. Le persone hanno difficoltà ad accettare più aspetti di una persona ed anche io sono stato influenzato da questo pregiudizio. All’inizio è stato difficile mettere insieme queste due dimensioni che in realtà non sono state mai molto distanti. La psicoanalisi è una scienza ma allo stesso tempo e anche un’arte perché la cura non può essere standardizzata e manualizzata. Ogni persona è unica ci vuole una sensibilità estetica quando cerchi di curarla con l’ascolto e le parole. Non è possibile fare entrare in uno schema teorico o in una diagnosi la vita di una persona. Freud lo sapeva bene. A proposito dell’amore, per esempio, diceva: “Chiedetelo ai poeti” quasi a voler suggerire che la vita è un mistero che sfugge alla scienza.  Freud parlava della psicoanalisi come una talking cure, ma in realtà non è solo un dialogo narrativo quello che accade tra paziente e psicoanalista.

Il fondamento della psicoanalisi così come della musica è l’ascolto. Ci sono studi che stanno andando in questa direzione in psicoanalisi e in altre forme di psicoterapia. Durante una conversazione terapeutica è necessario saper cogliere i ‘pensieri sonori’ che attraversano il campo relazionale. Se le parole dello psicoterapeuta non “suonano bene” se non ‘toccano emotivamente’ l’altro, la seduta rischia di diventare un chiacchierare a vuoto. Inoltre, bisogna avere un “terzo orecchio” per capire la canzone del paziente, quel ritornello emozionale che organizza il suo carattere.

Il tuo approccio alla musica è curativo, nel senso che serve a sollevarti dalle ansie della vita, o invece le tue composizioni nascono da un animo sereno e libero?
Comporre canzoni e scrivere di teatro, o fare psicoterapia, nasce da una esigenza profonda, dalle gioie e dai dolori della mia vita che sento il bisogno di condividere con gli altri.  Quando la storia degli altri risuona con la mia nasce un cambiamento in me e negli altri. Non so spiegarlo bene. Tra arte e psicoterapia cambia il livello di responsabilità etica. Ripeto, per me le due dimensioni creano una sinergia creativa.

Ci racconti delle esperienze musicali trascorse dall’autoproduzione di “DeCantare” fino allo spettacolo “Sott’ ’a maschera”?
Il mio percorso come musicista è stato molto tortuoso, poiché sono molto critico ed esigente verso me stesso. Mi sono fermato a volte per molto tempo lungo la strada artistica attratto dalla vita o per questioni personali. Per quanto “DeCantare” fosse un disco molto apprezzato io sentivo che mancava qualcosa e non l’ho portato avanti. Molti colleghi musicisti e psicologi mi hanno rimproverato. Non dico che non abbiamo ragione, ma io avevo l’esigenza di maturare qualcosa in me. Oggi tutti vogliono visibilità immediata. Bene, io sono l’opposto, mi prendo tempo. Fare arte per me è un modo per approssimarmi alla verità e se l’opera per me non soddisfa questa esigenza, allora mi fermo. Tra questo disco è l’altro ho molto vissuto, ho fatto alcune esperienze con artisti di varia estrazione, finché non ho maturato una nuova visione della canzone anche se molti mi stanno dicendo che colgono una continuità tra il primo e il secondo disco. Questo mi fa molto piacere.

Com’è nata l’idea di questo spettacolo? Cosa ti ha spinto a portare “il teatro nella musica” e a “rappresentare” la tua musica rafforzandola con i visual? 
La canzone è un medium fantastico che a volte può raggiungere livelli estetici alti, ma alcuni argomenti come la libertà, e in particolare quella che io chiamo la questione della “carcerazione psichica”, vale a dire di come le persone costruiscono le loro personali prigioni emotive ed esistenziali, richiedevano uno spazio di riflessione più ampio e per questo ho pensato all’inizio ad un musical il cui copione ho dato in lettura a Lello Arena e a Marisa Laurito. Persone disponibili e fantastiche. Con Marisa stavamo pensando di metterlo in scena al Trianon il teatro diretto da lei. Io vedevo lei nella parte di Lady Liberty, ma anche Francesco Cotticelli, un critico teatrale con il quale ne avevo parlato.  Tuttavia, i costi del musical erano troppo alti per come avevo immaginato l’allestimento. Per questo abbiamo dovuto rimandare eravamo da poco usciti dalla pandemia e nessun produttore esecutivo voleva rischiare.

Questa volta, tuttavia, non avevo intenzione di fermarmi e da quel copione ho tratto un’egloga, un dialogo teatrale tra due personaggi ambientato in un universo sospeso tra la cultura barocca e il contemporaneo. E’ nato un altro progetto che nella forma è diverso dal musical e che s’ispira al Cantastorie di Ferdinando Russo e all’egloga La coppella di Giovanbattista Basile. S’ispira molto liberamente. Mi preme raccontare la collaborazione tra me e Salvatore Iermano che ha impersonato il pazzariello, è stato uno scambio artistico molto fertile. E’ un attore con grandi potenzialità espressive, in grado di passare dal tragico al comico con grande versatilità. Avrete modo di apprezzarlo. Per quanto riguarda i Visual, ho fatto un incontro fortunato con una pittrice che ha messo la sua ispirazione al servizio del mio lavoro, sia sviluppando l’immagine di copertina del disco che interpretando alcune canzoni con la sua “pittura in movimento”, come la chiamo io. Sto parlando di Giulia Ambriola un’artista romana con la quale abbiamo una buona intesa artistica.

Hai sempre scritto in napoletano o c’è stato un momento di passaggio tra la produzione italiana e quella “in lingua napoletana”?

In passato avevo scritto in napoletano, ma non ne ero del tutto convinto. Chi mi ha spinto a seguire questa strada e stato Roberto Vernetti, che ha intuito una qualità profonda nel mio modo di scrivere. Ha insistito fino a convincermi del tutto. E non mi pento affatto di questa scelta. Naturalmente nelle canzoni il mio napoletano è diverso da quello classico, che invece anche dal punto di vista lessicale è più presente nella parte teatrale dello spettacolo.

Mi sembra che “Sott’ ’a maschera” ti rappresenti in pieno: l’amore per Napoli e per New York, i temi della libertà, dell’amore, del disagio e della ricerca della verità. C’è tutto di te o manca qualcosa?

C’è sempre qualcosa che manca in un lavoro artistico, è impossibile rappresentare tutto, forse è possibile sognare di farlo, ma anche Michelangelo con il suo Mosè ad un certo punto scagliò il suo martello contro la statua esclamando: “perché non parli?”, mostrando una palese insoddisfazione. L’arte si approssima alla verità ma non può rappresentarla totalmente. Ogni opera è un passaggio non è mai un punto d’arrivo. Forse per Michelangelo sì! (ride)

Addentrandoci nello spettacolo, come nasce l’idea di far incontrare una figura iconica come il Pazzariello napoletano e un cantastorie del Seicento? E per quale esigenza? Cosa li lega?
Il pazzariello è la figura dell’imbonitore che emerge nella seconda metà del Settecento, ma per me è il diretto discendente del giullare di corte che troviamo nel XVII secolo dal quale proviene. Ho immaginato che una macchina del tempo avesse risvegliato lui e il suo padrone, un principe napoletano del Seicento scappato dal suo palazzo per fare il cantastorie. Entrambi sono ritornati dal passato per determinare il valore di questa nuova “poteca” della canzone la cui insegna è la Statua della Libertà che indossa la maschera di Pulcinella. Ho voluto mettere in contatto tradizione e contemporaneo, immagine e mito.  La Statua della Libertà non rappresenta l’America. New york non è l’America. La statua rappresenta l’archetipo della Grande Madre e Xenia la dea dell’ospitalità e dell’accoglienza. Lady liberty non c’entra con Wall Street, il liberismo e il Vietnam va ben oltre l’americanismo. Lei è amata da tutti i popoli che soffrono di sradicamento culturale. Non ha niente a che vedere con la colonizzazione del mondo da parte dell’occidente.

A partire da questo incontro tra Pulcinella e Lady Liberty nascono alcune considerazioni sul mondo contemporaneo che i due personaggi fanno guardandolo dal passato. Mi preme ricordare che le riprese video sono state fatte nel complesso monumentale seicentesco di Santa Maria della Vita che ora ospita una struttura per senza tetto, homeless, diretto da Antonio Rulli.  E’ una struttura incantevole che si trova nel quartiere Sanità, poco distante dal cimitero delle Fontanelle.

In generale, in che epoca è ambientata la narrazione?
E perché un’altra icona come la Statua della Libertà indossa la maschera di Pulcinella?

Molti mi hanno chiesto perché la Lady Liberty indossa la maschera di Pulcinella. Non mi va di dare una risposta chiusa. Il potere di questa immagine invita alla riflessione e sollecita associazioni inedite che lascio allo spettatore. Ho già detto molto. I personaggi sono del Seicento e vivono sospesi in quella dimensione temporale, ma conoscono la Napoli contemporanea e ne discutono.

Tanti nomi importanti hanno concorso alla realizzazione dello spettacolo (napoletani e non), a partire da Piero De Asmundis.

Piero De Asmundis è stato il produttore musicale del mio primo disco, è un caro amico che in questo nuovo lavoro ha svolto la direzione artistica dello spettacolo e ha avuto un ruolo fondamentale e autonomo nella post-produzione. Un musicista di grandi qualità che passa facilmente dal jazz alla canzone d’autore. E’ stato lui ad invitare Daniele Sepe nel mio primo disco in cui ha eseguito due assoli strepitosi in due miei brani L’uva che diventa vino e E’ dolce. Tuttavia, la produzione di “Sott’ ‘a maschera” è di Roberto Vernetti, che ha una lunga esperienza nazionale ed estera. E’ un innovatore nel campo del Sound Design e nel modo di concepire la produzione musicale. Non interviene se non per valorizzare ciò che l’autore ha composto. La produzione di molti artisti ormai noti come Elisa, Malika Ayane, Mahmood, Raiz, Teresa de Sio, Anna Oxa Raiz e tanti altri è stata sua. Ha vinto un David di Donatello come produttore della canzone Arrivederci amore ciao cantata da Caterina Caselli.  Siamo diventati molto amici. Le nostre conversazioni telefoniche sono diventate così profonde da immaginare di scrivere un libro su arte, produzione musicale e psicoanalisi. Un libro che descrive la nostra collaborazione, ma che vuole far luce sul senso della creatività.

Però, non posso evitare di ricordare tra i miei amici e collaboratori Claudio Fagnani, esperto nella programmazione e indispensabile consulente musicale durante le fasi della preproduzione a cui spesso ho chiesto di registrare parti di piano e alcune di basso. Claudio è stato di grande aiuto nel lavoro che io e Roberto insieme a lui abbiamo portato avanti.

Chi non riuscisse a venire in teatro il 10 novembre a Napoli dove può ascoltare le tue nuove canzoni?

Per ora solo in digitale sulle varie piattaforme, ma c’è la concreta possibilità che prendano presto la forma di un disco.

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MARCO GESUALDI | Ho piantato un albero https://www.soundcontest.com/marco-gesualdi-ho-piantato-un-albero/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=marco-gesualdi-ho-piantato-un-albero Mon, 05 Jun 2023 17:52:56 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=60907 E’ da poco uscito il delizioso “Ho piantato un albero”, ultima fatica del chitarrista e compositore napoletano Marco Gesualdi, ancora per l’etichetta “Marechiaro” di Claudio Poggi, distribuito da Egea Music. A quattro anni di distanza da NOW (Naples Open World) Marco Gesualdi raduna nuovamente tutta la compagnia per dar vita ad un album in cui […]

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MARCO GESUALDI
Ho piantato un albero
Marechiaro Edizioni Musicali
2023

E’ da poco uscito il delizioso “Ho piantato un albero”, ultima fatica del chitarrista e compositore napoletano Marco Gesualdi, ancora per l’etichetta “Marechiaro” di Claudio Poggi, distribuito da Egea Music.

A quattro anni di distanza da NOW (Naples Open World) Marco Gesualdi raduna nuovamente tutta la compagnia per dar vita ad un album in cui ripropone e approfondisce i punti salienti della sua poetica musicale. Sono oltre venti, infatti, i musicisti coinvolti nel nuovo progetto e, siamo sicuri, se non fosse stato per l’ormai superata Pandemia, sarebbero stati anche di più.

La condivisione, infatti, è uno degli elementi caratterizzanti il modus operandi del chitarrista partenopeo. Non vi ha rinunciato nemmeno nei mesi di coprifuoco, piantando undici piccoli semi, nutrendoli con amore e convivialità. Le profonde e ramificate radici, in questo caso il rapporto con i suoi sodali, hanno dato vita a undici forti alberi, ognuno diverso dall’altro, ma tutti significativi e mai banali. Da bravo maestro concertatore ha individuato per ogni brano gli interpreti/coautori giusti, riuscendo allo stesso tempo ad esaltare le peculiarità dei singoli.

“Ho piantato un albero” è una riflessione sulla Natura in senso lato, intesa come bolla nella quale siamo collocati come esseri viventi, ma anche come mondo interiore dal quale partire per far funzionare tutte le cose. Non a caso è stato Scetate il singolo lanciato quasi un anno fa per annunciare l’uscita del disco, un invito a mettersi in discussione, incitamento ad un cambio di mentalità che anche nella forma musicale – un insolito gipsy jazz – spinge al movimento e a guardare alla vita vera. Le voci di Rossella Rizzaro e Simona Boo, la prima in spagnolo, la seconda in un più indolente napoletano, ci spingono a rifuggire da un’esistenza che ci viene imposta come unica possibile.

Sienteme è il brano di apertura, inno alla vita e all’amore, coinvolgente nell’arrangiamento di Gesualdi e nel testo dell’amico Marcello Coleman, e da quest’ultimo ben interpretato in duo con Simona Boo. In Ho piantato un albero, la cui intro porta dritto al pozzo dei rospi di decurtisiana memoria, l’altro “giardiniere dell’anima”, Maurizio Capone, sostenuto dall’indispensabile Simona Boo, traccia con forza la direzione dell’intero progetto: “Stendiamo mani, restiamo umani, siamo figli di un baobab”.

Gesualdi presta la sua voce in Terra Murata, affiancato da Simona Boo, e in Buster Keaton, in coppia con la figlia Eleonora. Tre i brani strumentali, Flamingo Amigo, con l’amico e maestro Gianni Guarracino; Afrolife, con Francesca Iavarone al flauto e Lello Petrarca al piano elettrico; e Kalma Piatta, con Riccardo Veno al sax soprano. Al quartetto, composto, oltre che dal chitarrista, da Enrico del Gaudio alla batteria, Giosi Cincotti al piano e fisarmonica e Guido Russo al basso, si affiancano o alternano strumenti e voci, come quella dolentemente nostalgica di Silvia Romano in Ammore Fujente o quella raffinata di Maria Pia De Vito nel brano che chiude il disco. Viene Suonno è un piccolo gioiello ritrovato, nato dalla giovanile collaborazione con la cantante ai tempi del gruppo “’A banca ‘e ll’acqua”. Il testo è liberamente tratto da un Anonimo del ‘700.

Per i testi si segnalano le collaborazioni con Carlo Procope, Alessandro Pacella e Maria Totaro. L’albero piantato in copertina è di Ester Santamaria. Il disco è dedicato all’amico e maestro Lucio Lo Gatto.

“Ho piantato un albero” è un disco di alto artigianato musicale, capace di ispirare chi lo ascolta e di cui si consiglia un uso smodato.

 

 

Musicisti:

Marco Gesualdi, chitarra elettrica, classica, acustica, sitar, guitarele, percussioni, voce
Simona Boo, voce (1,2,3,8,backing vocals 4)
Rossella Rizzaro, voce (8, backing vocals 2)
Eleonora Gesualdi, voce (4)
Silvia Romano, voce (10)
Maria Pia De Vito, voce (11)
Marcello Coleman, voce (1)
Maurizio Capone, voce, congas bidone, scopa elettrica, paralume, tastiekar, shaker (3)
Francesco Paolo Manna, darabouka, bonghetti, tamburello, shaker (6, 11)
Francesca Iavarone, flauto traverso (7)
Riccardo Veno, sax soprano (9)
Paolo Licastro, sax tenore (3)
Gianfranco Campagnoli, tromba, flicorno (1,4,8)
Michele Signore, viola, lira pontiaca, percussioni, mix (11)
Gianni Guarracino, chitarra classica (5)
Enzo Caponnetto, chitarra elettrica (6)
Roberthinho Bastos, shaker, surdo, congas, bonghetti, pandeiro, triangolo woodblock (1,2,4,5,7,8,9)
Enrico Del Gaudio, batteria (1,3,4,6,8,9,10)
Carmine Brachi, batteria (7)
Carlo di Gennaro, batteria (2), percussioni (6), grancassa (11)
Giosi Cincotti, piano rhodes, organo, synth, fisarmonica (1,2,3,4,5,6,8,9,10)
Lello Petrarca, piano elettrico, synth (7,11)
Guido Russo, basso elettrico, basso fretless (1,2,3,4,5,6,7,8,9,11)
Roberto Giangrande, basso elettrico (10)

Tracklist:

01. Sienteme (feat.Marcello Coleman e Simona Boo)
02. Terra Murata (feat.Simona Boo)
03. Ho piantato un albero (feat. Simona Boo e maurizio Capone)
04. Buster Keaton (feat.Eleonora Gesualdi)
05. Flamingo Amigo (feat.Gianni Guarracino)
06. Basta poco (feat.Simona Boo e Enzo Caponnetto)
07. Afrolife (feat.Francesca Iavarone e Lello Petrarca)
08. Scetate (feat.Rossella Rizzaro e Simona Boo)
09. Kalma piatta (feat.Riccardo Veno)
10. Ammore fujente (feat.Silvia Romano)
11. Viene Suonno (feat.Maria Pia De Vito)

Link:

Marco Gesualdi

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MORENA CHIARA | Aria https://www.soundcontest.com/morena-chiara-aria/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=morena-chiara-aria Mon, 24 Apr 2023 08:02:28 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=60348 Ecco una proposta da segnalare al volo per la sua qualità intrinseca, per la ventata di freschezza con cui arriva all’ascoltatore, carica di comunicativa e di messaggio. Morena Chiara De Luca – un doppio nome che sembra ricercato e invece è proprio legato alla sua anagrafe brasilianapartenopea – è la cantautrice (lingue e dialetti si […]

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MORENA CHIARA
Aria
Soffitta Produzioni
2023

Ecco una proposta da segnalare al volo per la sua qualità intrinseca, per la ventata di freschezza con cui arriva all’ascoltatore, carica di comunicativa e di messaggio. Morena Chiara De Luca – un doppio nome che sembra ricercato e invece è proprio legato alla sua anagrafe brasilianapartenopea – è la cantautrice (lingue e dialetti si mescolano nelle sue interpretazioni) che pubblica con Soffitta Produzioni il suo primo progetto da solista, “Aria”, disponibile dal 21 aprile 2023 su tutti i digital store e in copia fisica.
Un connubio di sonorità che parte dall’artista, dalla sua voglia di esprimersi dopo tante esperienze musicali e teatrali che l’hanno formata.
E che ora fiorisce nella casa delle idee di Soffitta, prodotto dal fondatore Gheto Soffittaman, che oltre alla musica firma 2 brani come autore, Aria (che vede la presenza di Nicola Caso al basso) e Cenere, prodotte da Deejay Times. È inoltre co- autore di Déjame con Benedetto Bebaloop Battipede alla tromba, Meglio di me e Peraì (con la partecipazione  di Bebaloop ai synth).
Da segnalare anche la minimale, suggestiva I feel dizzy.
Un autentico valore aggiunto la cover di Nicola Piscopo, ricca di mistero e di sensualità.
L’uscita dell’album è accompagnata dal video futuristico del primo estratto U que é prodotto da Casa Zen.

Il carattere telegrafico di queste righe si spiega anche con la volontà di informare in tempo della prima presentazione ufficiale e live dell’album. Che si terrà martedì 25 aprile 2023 a Napoli, alle ore 21 al Kestè, a largo San Giovanni Maggiore Pignatelli durante la rassegna “get up stand art” tenuta dall’associazione “Arteteka”.
Ospiti della serata Alessandro Ruocco, Bebaloop, Pier Macchiè, Trisha Palma e Andrea Errico con una performance di live painting, Nicola Piscopo con l’esposizione di sue opere.

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GLORIA CHRISTIAN | L’amore per il jazz e quella marcia in più… https://www.soundcontest.com/gloria-christian-lamore-per-il-jazz-e-quella-marcia-in-piu/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=gloria-christian-lamore-per-il-jazz-e-quella-marcia-in-piu Thu, 21 Oct 2021 22:02:06 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51918 Un’intervista rimasta nascosta per quattro anni, in attesa di ricevere la giusta collocazione all’interno di una pubblicazione più ampia. Ma il tempo passa e allora, in attesa della “pubblicazione più ampia”, è giunto il momento di tirarla fuori dal nastro. Perché la storia merita, perché lei è Gloria Christian. Sì, “quella” Gloria Christian, cantante simbolo […]

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Un’intervista rimasta nascosta per quattro anni, in attesa di ricevere la giusta collocazione all’interno di una pubblicazione più ampia. Ma il tempo passa e allora, in attesa della “pubblicazione più ampia”, è giunto il momento di tirarla fuori dal nastro. Perché la storia merita, perché lei è Gloria Christian. Sì, “quella” Gloria Christian, cantante simbolo di un’epoca d’oro della canzone italiana, prima che napoletana (che poi spesso le due “canzoni” coincidono).
Gloria (Prestieri), nata a Bologna durante una tournée del padre trombettista di jazz, è figlia di Napoli, città nella quale si trasferisce in tenerissima età. Prima ancora di diventare l’artista simbolo della Vis Radio, per la quale inciderà decine di successi tra gli anni ’50 e ‘60, si avvicina alla musica attraverso l’ascolto del jazz. Quello arrivato da pochi anni in città con gli Americani o caduto dal cielo sotto forma di V-disc (sempre ad opera degli Alleati). Lo stesso praticato dal futuro marito, al quale si deve il merito di aver scoperto le doti della futura Cerasella.
Della sua carriera si sa tutto, poco sapevamo dei suoi esordi napoletani. Eravamo curiosi e Gloria ci ha aperto la sua casa…

 

Pochi sanno che il tuo amore per il canto si deve alla “musica americana”, sebbene tu sia poi diventata di fatto un’ambasciatrice della musica italiana nel mondo. E’ vero?

Sì, è così. Innanzitutto da piccola andavo a vedere al cinema tutti i film americani, arrivati in gran numero dopo la guerra e che erano pieni di canzoni americane e di jazz. E ascoltando sentivo che c’era qualcosa che mi apparteneva, nel modo di cantare, nelle armonie. Ma non mi rendevo conto che questa “appartenenza” valesse solo per me, pensavo che per tutti fosse così. Anche prima di scoprirmi cantante, quando canticchiavo per conto mio, io già cantavo in quella maniera.

Ho certamente subito più l’influenza di quegli ascolti che la presenza di mio padre, che era un trombettista anche jazz, però suonava più che altro con le compagnie di varietà in giro per l’Italia. Suonava con le grandi compagnie, da quella di Wanda Osiris a quella di Totò. Quando si esibiva a Napoli andavo sempre ad ascoltarlo, mi infilavo nella buca e seguivo tutto da lì. Quindi certamente assorbivo da canali diversi, ma non avevo mai ancora pensato di fare la cantante prima dell’incontro con mio marito…

Andavo a scuola con la sorella di quello che sarebbe diventato poi mio marito, Lillino Boccalone. Frequentavo quindi la sua casa e lui, più grande di me, già suonava con un complesso nei vari circoli. Erano tutti studenti. La differenza d’età tra noi era notevole. Io avevo 12 anni, lui già maggiorenne, tant’è che la prima volta che andai a casa sua mi aprì e, rivolgendosi alla sorella Tina, mi annunciò dicendo che c’era una “bambina” sull’uscio. Ci fidanzammo solo dopo qualche anno.

Lo seguivi nei suoi concerti?

Sì, spesso lo seguivo quando suonava con il suo complesso nelle feste musicali che si tenevano in casa a quei tempi e spesso anche alla prove. Un giorno, mentre provavano a casa di un pianista, cominciai a canticchiare senza farmi sentire (era quello che pensavo…). Fu così che vollero per forza farmi cantare un pezzo. E per caso quel pezzo, di Doris Day mi ricordo, entrò nelle registrazioni che loro effettuavano per riascoltarsi. Tempo pochi giorni e quella registrazione aveva fatto il giro dell’ambiente. Fu così che mi chiamò Lillino e mi disse che c’era una persona che voleva sentirmi cantare. Prima cercai di resistere, presa dalla timidezza e dal fatto che non avevo mai cantato davanti ad altre persone, poi cedetti. Andai all’appuntamento e trovai Marino Marini, pianista, cantante e compositore che in quel periodo suonava al locale “La Conchiglia” a Napoli (n.d.r. dove rimase cinque anni, prima di spiccare il volo prima a Milano e poi a Parigi, in Inghilterra e fino in Giappone). Mi sentì cantare e praticamente mi “ingaggiò” per uno spettacolo che si sarebbe tenuto di lì a poco al Metropolitan, uno spettacolo per gli studenti e per le scolaresche. Mi ricordo che mi ritrovai dietro le quinte con un esordiente Alighiero Noschese, nella veste di presentatore, che tremava dalla paura, tanto da trasmetterne anche a me che ero arrivata lì nella piena incoscienza. Fu un grande successo. Cantai Again, bellissima canzone americana, e il gradimento dei ragazzi fu enorme.

La cosa giunse all’orecchio di mio padre, che in estate metteva su dei gruppi per suonare in giro. Quell’anno con un quartetto stava organizzando dei concerti a Portici. Di solito in estate, durante le vacanze scolastiche, come molti miei coetanei, lavoravo. Mi occupavo del bancone della birra nel ristorante “Pizzicato”, a piazza Municipio, uno dei primi grandi ristoranti di Napoli con i suoi 1600mq, famoso anche per la presenza assidua degli americani nel Dopoguerra. Normalmente lavoravo lì, anziché andare al mare, fino alla ripresa delle lezioni. Ma quell’estate mio padre volle che andassi a cantare con lui. Così mi organizzai un piccolo repertorio di canzoni che ascoltavo in radio.

Anche se non “inseguivi” la musica, il destino aveva deciso altro…

Ero ancora occupata con la scuola, per cui durante l’anno cantavo un po’ in giro, ma non era quella la mia attività principale. Nonostante questo mi ritrovai una sera a cantare all’interno del Circolo dei Sottufficiali della NATO. In verità fu invitato a suonare con un ingaggio di 3000 lire a testa Lillino con i suoi amici, ma vollero che andassi anch’io. La mia voce e il mio modo di cantare piacque tanto che mi vollero anche per il sabato successivo. Capii, però, che così come non mi avevano pagato la prima volta, non mi avrebbero pagato nemmeno la seconda. Anzi, l’impresario che gestiva il gruppo provò a convincermi promettendomi le 3000 lire che sarebbero dovute andare a Lillino… Capìta l’antifona quel sabato non mi presentai. Fu così che successe quello che si vedeva in tanti film americani dell’epoca. Cominciata a serpeggiare tra il pubblico la notizia che la cantante non c’era, i Sottufficiali si rivoltarono rompendo tutto quello che gli capitava sotto, tavoli, bicchieri, distruggendo praticamente il Circolo…

L’estate successiva, dopo una nuova audizione con Marino Marini, fummo ingaggiati al “Grotta Romana”, locale sul lungomare partenopeo. In quel periodo c’era un concorso radiofonico che si chiamava “La bacchetta d’oro” e che trasmetteva musica dai locali più prestigiosi d’Italia. Quell’anno (1952) fecero una tappa anche al “Grotta Romana” e io cantai due canzoni americane. In ascolto da Milano c’era il maestro Gino Conte, napoletano, che dirigeva l’Orchestra della RAI e aveva legato il suo nome a quello di Claudio Villa, che però cantava un genere che a me non attirava molto… Gino Conte era il Direttore della Grande Orchestra Vis Radio fin dalla sua fondazione. L’etichetta discografica Vis Radio era nata nel 1948 per la lungimiranza di Aldo Scoppa, come “ramo” di un’azienda che produceva radio, con lo scopo di investire nella produzione di nuovi artisti, soprattutto napoletani. Aveva sedi anche a Milano e Roma, oltre che a Napoli, dove possedeva anche degli studi di registrazione.

Ma è a Milano che Gloria diventa “Christian”, non senza qualche pentimento…

Nel 1954, dopo il diploma, andai a Milano, chiamata da Gino Conte, a registrare. Si registrava dal vivo, in diretta, con l’orchestra. Qui eseguii un programma di canzoni italiane. Mi fecero incidere dei pezzi da film, tutti film musicali, come quelli di Marylin Monroe, che riproponevano su disco in italiano. Ma c’erano anche canzoni americane, con testo inglese. Infatti il nome d’arte Christian nacque proprio per creare un’ambiguità italo-americana… L’orchestra ritmo-sinfonica della Vis Radio era magnifica, gli archi meravigliosi. Praticamente quasi tutti i musicisti milanesi, i fiati in particolare, erano quasi tutti jazzisti.

Ma all’inizio il nome d’arte mi creò non poche difficoltà che mi impedirono, tra l’altro, di andare al Festival della Canzone Napoletana. Non mi volevano, la casa discografica si rammaricava pensando di aver fatto un guaio… Tant’è che ho cantai prima al Festival di Sanremo e solo dopo al Festival napoletano.  Paradossalmente furono proprio i successi di Sanremo che mi permisero di cantare a Napoli.

Il jazz fece posto alla canzone italiana, di cui saresti diventata di lì a poco la nuova icona, o ne diventò una componente?

Le mie apparizioni in ambito jazzistico cominciarono ad essere sempre più rare, visti i successi con le canzoni italiane e napoletane. Però si era saputo nell’ambiente che cantavo anche con gruppi jazz. E fu un fatto positivo, perché molti direttori ne erano incuriositi. Era una cosa che mi diede prestigio, per me è stata una breve scuola di formazione e un “passaporto” per guadagnare la considerazione dei direttori d’orchestra. Di fatto, prima, erano loro a fare il cast, a chiamare i cantanti e i musicisti. Del resto, prima di Sanremo, negli anni in cui ancora andavo a scuola, cantavo alla NATO tre volte alla settimana.

Gianni Ferrio e Armando Trovajoli non poterono che confermarmi nelle loro orchestre per la mia musicalità. Mi ricordo della terza edizione del Festival Internazionale della Canzone di Venezia con Trovajoli (1957). Quella di Trovajoli era un’orchestra bellissima, aveva i migliori musicisti, e per gli arrangiamenti si faceva aiutare da un altro grande musicista come Zeno Vukelich, straordinario. Ero felicissima di andare a Venezia. Sapevo però che il maestro Giulio Razzi, Direttore Generale della Rai, aveva imposto a Trovajoli di non esagerare con sonorità jazz, perché dovevamo rappresentare l’Italia. Il mio era un pezzo swing, poi c’era Fausto Cigliano con la chitarra e una cantante lirica. Arrivati a Venezia trovammo delle orchestre sfavillanti, agguerrite e tutte strizzavano l’occhio alle migliori orchestre americane. Trovajoli era rammaricatissimo, perché aveva le mani legate. L’unico pezzo swing, molto leggero, era il mio, che cantavo Stupidella. Alla fine vinse l’Olanda e l’orchestra di Trovajoli arrivò seconda. Il Maestro mandò me a ritirare il premio…

Altro ricordo bello di quella manifestazione è legato a Natalino Otto. Stupidella era uno swing tradotto dal brano A sweet old fashioned girl di Bob Merrill, cantato nel 1956 da Teresa Brewer. Natalino Otto l’aveva inciso in un suo disco in uscita. Quando seppe che l’avrei cantata a Venezia posticipò l’uscita del disco, così da dare a me la possibilità di cantarla per la prima volta. Per me fu un gesto di grande gentilezza, che non dimenticherò mai.

Purtroppo della tua carriera jazzistica restano pochi riferimenti. Ce ne vuoi parlare?

Il jazz lo cantavo con i ragazzi del Circolo Napoletano del Jazz, quando potevo, ma naturalmente non si incideva nulla, perché non c‘era mercato. Mi ricordo delle varie sedi del Circolo, da quella in via Luca Giordano fino alle serate al Circolo della Stampa. Con me c’era sempre mio marito, che però non era un professionista. In quegli anni frequentava l’Università e si laureò con un certo ritardo proprio perché suonava. Non ci sono tracce purtroppo di quest’attività. Renzo Arbore racconta spesso un episodio che mi vide involontariamente coinvolta durante un concerto al Circolo della Stampa. Il gruppo era composto, oltre che da me, da Lucio Reale al pianoforte, Lillino Boccalone al contrabbasso e Antonio Golino alla batteria. La canzone era Too Marvelous for Words, appena sussurrata, sostenuta da pochi accordi del piano. Un’interpretazione molto sentita e delicata. E c’era il batterista Antonio Golino dietro che fremeva, con le bacchette in mano, senza poter intervenire… Andai avanti fino al finale rubato, quando Golino avrebbe dovuto staccare il tempo per l’ingresso degli altri strumenti. Invece aprì sganciando una bacchettata colossale sul rullante che a tutti sembrò uno sparo, un colpo di fucile, tanto che tutti si alzarono in piedi guardandosi attorno. Poi, sornione, riprese il tempo con le spazzole…

Lucio Reale per me è stato il più grande di tutti. Sicuramente il più grande che mi abbia mai accompagnato. Aveva un orecchio sopraffino, mi accompagnava con delle armonie fantastiche. Bastava che gli accennassi un motivo perché lui lo trasformasse in un capolavoro.  Mi ricordo anche di Santino Tedone, sassofonista che poi entrò nell’orchestra della RAI di Roma, Renato Marini, trombettista anch’egli della RAI, Silvio Reale, batterista e fratello di Lucio, Pericle Morghen, altro pianista molto sensibile. In particolare di Renato Marini mi ricordo di un episodio alla fine del concerto di Rafael Mendez al Metropolitan. Mendez era una delle leggende della tromba e Renato alla fine del concerto nei camerini si inginocchiò e gli bacio le mani. In generale tutta la ritmica napoletana era richiestissima fuori città. Da Pierino e Gegè Munari a Lino Liguori, nessuno di loro infatti restò a Napoli più del tempo necessario a farsi conoscere.

Nel 1961 fui invitata alla seconda edizione del Festival Italiano del Jazz di St. Vincent, alla quale partecipai con il chitarrista Willi Mauriello, Antonio Golino alla batteria e mio marito al contrabbasso. Forse quella è l’unica testimonianza di una mia partecipazione ad una rassegna jazzistica.

In generale ho collaborato con diversi jazzisti italiani. Mi ricordo, ad esempio, della mia partecipazione ad una trasmissione televisiva di Carlo Loffredo a Milano, in cui improvvisiamo sul brano Samba di una nota.

Gloria Christian con Jula de Palma

Infine non possiamo non chiederti delle canzoni che ti hanno dato fama.

Come ti dicevo, è cominciata prima la mia carriera italiana, nel senso del repertorio, e poi quella “napoletana”. Dopo Casetta in Canadà del 1957 al Festival di Sanremo, partecipai nel 1958 al primo Festival della Canzone Napoletana. E arrivarono pezzi come O treno d’a fantasia, Nnammurate dispettuse con Giacomo Rondinella. Entrai in questo ambiente in cui tutti se la tiravano in una maniera incredibile. Facevano a gara a chi dovesse uscire prima, a chi dovesse cantare prima… Poi ogni città aveva il suo festival ed io ero sempre presente, con le già famose Nilla Pizzi, Carla Boni, Flo Sandon’s, che era la moglie di Natalino Otto… ed io ero incredula, giovane studente, di dare del tu a Nilla Pizzi e alle altre già affermate cantanti. Le orchestre erano belle e la paga ottima. Flo Sandon’s era una delle poche ad avere un fraseggio jazz, e con lei anche Jula de Palma. Parallelamente c’era la produzione “napoletana” per le varie Piedigrotta, ma era una produzione qualitativamente limitata.

La scena cambiò radicalmente con l’avvento dei cantautori, che scrivevano per se stessi, quindi limitando il canto alle proprie possibilità vocali. Nonostante questo abbiamo avuto dei capolavori, ma in generale chi le scriveva era quello più indicato a cantarle. Spesso anche i testi erano condizionati dalle capacità vocali del compositore. Bruno Martino, ad esempio, mi raccontò che nella scrittura dei testi usava certe parole invece di altre, perché sapeva di non poter prendere certe note con la lettera “e”.

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GIANNI VALENTINO | Io non sono Liberato https://www.soundcontest.com/gianni-valentino-io-non-sono-liberato/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=gianni-valentino-io-non-sono-liberato Tue, 22 Jan 2019 16:24:31 +0000 http://www.soundcontest.com/?post_type=recensioni&p=21070 Ma chi è questo LIBERATO? ci siamo chiesti tutti dopo aver ascoltato “Nove maggio”, il primo brano mandato in pasto alla rete dal cantante incappucciato nel febbraio di due anni fa. Abbiamo continuato a chiedercelo con l’uscita dei successivi videoclip, notando facilmente che dietro musica e parole per nulla casuali c’era un progetto preciso. In […]

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Gianni Valentino
Io non sono Liberato
Arcana editore
2018

Ma chi è questo LIBERATO? ci siamo chiesti tutti dopo aver ascoltato “Nove maggio”, il primo brano mandato in pasto alla rete dal cantante incappucciato nel febbraio di due anni fa. Abbiamo continuato a chiedercelo con l’uscita dei successivi videoclip, notando facilmente che dietro musica e parole per nulla casuali c’era un progetto preciso.

In un momento di relativa stasi nel “percorso professionale” dell’anonimo musicista, esce per la casa editrice Arcana il bel libro di Gianni Valentino “Io non sono LIBERATO”, attraverso le cui pagine il giornalista napoletano ricostruisce accuratamente tutta la storia.

L’idea nasce da una mancata videointervista, inizialmente accettata da LIBERATO, con tanto di set preparato. Il cantante fa retromarcia all’ultimo momento. Valentino lo insegue nelle sue sporadiche apparizioni in giro per l’Europa, compreso lo sbarco in gommone a Mergellina. E poi sui canali social, tanto cari al cantante sconosciuto. Ma senza fortuna. Il giornalista decide così di mettere tutto su carta e scrivere quello che sa, quello che ha scoperto o che gli hanno riferito, con “soffiate” più o meno credibili.

Anzi nella ricerca del sospettato fa molto di più. Ne studia la personalità, cerca di entrare nella psicologia del personaggio, incrocia tutti i dati a sua disposizione. Soprattutto analizza filologicamente i testi delle sue canzoni comparandoli sia con quelli della tradizione canora napoletana, sia con quelli dei suoi contemporanei.

E per un momento, nel libro, è tale la mole di informazioni, di aneddoti, di storie su Napoli e la sua musica, che Valentino sembra allontanarsi dall’obiettivo principale e trasportare il lettore sulle sue note, letterarie e musicali.

LiberatoMa nulla è fine a se stesso e tutto concorre a scoprire chi si nasconde dietro quei sei video comparsi su Youtube che, a partire dal febbraio 2017, hanno totalizzato circa cinquanta milioni di visualizzazioni. Un artista da solo potrebbe metter su uno strumento mediatico così sofisticato? Può il video di uno sconosciuto musicista essere menzionato su “Rolling Stone” o “Repubblica XL” a due giorni dalla sua prima uscita senza che vi sia dietro qualcuno che conosca davvero bene come funziona l’industria musicale? Probabilmente no. E allora chi c’è dietro?

Gianni Valentino ascolta le opinioni, tra gli altri, di Clementino, Raiz, Fabri Fibra, Nino D’Angelo, Populous, Ivan Granatino, Gemitaiz, Livio Cori, Bawrut, Planet Funk, Gigi D’Alessio, Speaker Censou, Nu Guinea e, soprattutto, di Enzo Chiummariello, impresario, e del prof. Ugo Cesari, foniatra, che ha indentificato la voce di LIBERATO in quella di Livio Cori. Ma studia anche i “movimenti” di chi si è rifiutato di parlare, vedi Gennaro Nocerino, Calcutta, K-Conjong e Emanuele Cerullo.

Da tutti trae ispirazione per la ricerca di un volto. E un volto alla fine compare. Il “vero” volto di LIBERATO è Napoli. Proprio la mancanza di un nome a cui attribuire le sue gesta ha contribuito a indentificarlo con l’intera città. LIBERATO è l’idea di Napoli, con tutte le sue conclamate meraviglie e le incredibili contraddizioni, è la Napoli di oggi che vive nell’idea di quella che fu. Così come le canzoni di LIBERATO, nel mescolare rap, dub, dance e neomelodismo (o neomelò, come lo definisce Gianni Valentino), uniscono Viviani a Franco Ricciardi, incrociano Salvatore Di Giacomo con Nino D’Angelo. Sono un calderone che tutto contiene. Così come i suoi video, affidati alla regia di Francesco Lettieri. Dentro c’è Napoli con tutti i suoi cliché, dai riferimenti al Calcio Napoli alle griffe ambite dai giovani, dagli immancabili smartphone agli scorci paesaggistici, dagli scooter che scorrazzano trasportando persone e sentimenti al soggetto principe di tutte le storie, l’ammore.

Il libro contiene, inoltre, al suo interno un QR-code per accedere a contenuti extra (in pratica un altro libro) con informazioni accurate su tutto il fenomeno LIBERATO, che ne dettagliano minuziosamente azioni e parole.

valentinoDopo la prima uscita pubblica avvenuta lo scorso novembre all’Auditorium Novecento di Napoli, il libro sarà presentato, alla presenza dell’autore, il 6 febbraio a Casa Sanremo, nell’ambito dell’evento festivaliero, l’8 marzo a Perugia e il 15 marzo ad Arezzo.

 

Gianni Valentino, “Io non sono Liberato”, Arcana editore, Collana Cantautori del Duemila, 2018, pp. 286, 17,50 euro.

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TEANO JAZZ 2014 – Hamid Drake & Michel Portal https://www.soundcontest.com/teano-jazz-2014-hamid-drake-michel-portal/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=teano-jazz-2014-hamid-drake-michel-portal Sun, 23 Sep 2018 12:55:59 +0000 http://www.soundcontest.com/?post_type=video_gallery&p=5980 L’incontro tra i due ha avuto genesi relativamente recente, ma da subito insieme hanno dato prova senza dubbio alcuno di una inventiva conversazione, in quanto entrambi sono virtuosi di pirotecniche girandole musicali dove la personale cifra improvvisativa ha fatto da contenitore e da timone.

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Hamid Drake: drums, percussions
Michel Portal: clarinettes, sacophones,  bandonéon

Michel Portal, compositore, clarinettista, sassofonista, e  originale bandoneonista, uno dei padri del più audace jazz europeo, attivo anche nel campo della musica classica e contemporanea (ha lavorato con Berio, Stockhausen, Boulez e celebri sono le sue interpretazioni di Brahms), uno dei fondatori  del più radicale jazz europeo negli anni Sessanta,  vanta collaborazioni  con artisti quali Albert Mangelsdorff, Han Bennick, Evan Parker, John Surman; Hamid Drake batterista percussionista di Chicago compagno privilegiato di Fred Anderson, Don Cherry, Archie Shepp, David Murray,  Pharoah Sanders, Bill Laswell, si muove con disinvoltura tra stili e movimenti musicali dal be bop al free al reggae al soul  oltre ad essere un convincente band leader.

L’incontro tra i due ha avuto genesi relativamente recente, ma da subito insieme hanno dato prova senza dubbio alcuno di una inventiva conversazione, in quanto entrambi sono virtuosi di pirotecniche girandole musicali dove la personale cifra  improvvisativa ha fatto da contenitore e da timone. Un gioco musicale, allegro, empatico e divertito trasudante di note tutte preziose quasi a voler scandire il racconto in pillole di due vite dedite alla musica, alla ricerca, alla sperimentazione e ai nuovi incontri. Ancora una volta nel gioco funambolico e spericolato della musica, si fondono culture, racconti di vita, e si apre uno scorcio da una finestra musicale dove nessuna matrice stilistica è padrona, nessun linguaggio è persistente e dove tutto con l’incanto della spontaneità e  dell’esperienza maturata  può accadere.

27 luglio, Teano – Loggione del Museo Archeologico

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PINO DANIELE | Il tempo resterà https://www.soundcontest.com/il-tempo-restera-pino-daniele/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=il-tempo-restera-pino-daniele Mon, 20 Mar 2017 10:16:32 +0000 http://www.soundcontest.com/?post_type=recensioni&p=16181 Cita Fossati il regista Giorgio Verdelli nel presentare il suo docufilm sul palco del Teatro San Carlo di Napoli, dove Pino Daniele – Il Tempo Resterà è stato proiettato il 19 marzo in anteprima assoluta. «Per chi l’ha visto e per chi non c’era e per chi quel giorno lì inseguiva una sua chimera». Un […]

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Pino Daniele
Il tempo resterà
Sudovest Produzioni
2017

Cita Fossati il regista Giorgio Verdelli nel presentare il suo docufilm sul palco del Teatro San Carlo di Napoli, dove Pino Daniele – Il Tempo Resterà è stato proiettato il 19 marzo in anteprima assoluta.

«Per chi l’ha visto e per chi non c’era e per chi quel giorno lì inseguiva una sua chimera».

Un film per tutti i fans di Pino Daniele, senza limiti spazio-temporali, concepito per essere visto (e rivisto) partendo dall’inizio o aprendo a caso quel voluminoso tomo di storia della musica firmato dall’artista napoletano. Ma ancor più un atto dovuto verso le nuove generazioni, verso quei giovani che hanno ascoltato Pino attraverso i propri padri (e forse anche dai nonni) e che avevano bisogno di andare oltre i riff di “Yes I know my way” o di “ ’O Scarrafone”. Per loro era necessario che a raccontare Pino fossero i tanti musicisti che l’hanno accompagnato sul palco o anche quelli che hanno solo suonato la sua musica (emblematico il ricordo di Stefano Bollani, incapace di modificare la scrittura di Pino Daniele, già perfetta e piena come prima quella di Renato Carosone).

Ciò che emerge dal montaggio dei materiali perlopiù inediti messi a disposizione dalla famiglia del musicista e da Rai Cinema, pazientemente selezionati da Verdelli in un lavoro a quattro mani con Alessandro Daniele, figlio maggiore di Pino, è il carattere assolutamente internazionale della sua musica, alla cui formazione contribuiscono le stratosferiche collaborazioni con artisti del calibro di Eric Clapton, Al di Meola, Phil Manzanera, Pat Metheny, Wayne Shorter, solo per citarne alcune, eppure l’assoluta naturalità con cui la sua produzione si fondeva con stili e linguaggi solo apparentemente differenti.

Già, perché il suo linguaggio, il suo modo di pensare e comporre era quello dei grandi. Ed era lo stesso trasmesso ai componenti della sua mitica band, con i quali il feeling era tale che, come ricorda James Senese in un momento del film, spesso le prove erano già una prova generale, «perché quando c’era la melodia tutti sapevano cosa fare e quando c’era da improvvisare tutti sapevano come suonare». Proprio quest’approccio così maturo alla musica, questo particolare trattamento riservato al materiale sonoro e testuale nato dalla vena originale di Pino, questa perfetta fusion(e) di blues e melodia napoletana, si palesò in modo evidente nella notte di San Gennaro del 1981, davanti a duecentomila spettatori.

«Il 19 settembre. Senza grande pubblicità e grazie ad un formidabile tam tam, c’è un musicista napoletano che con la sua band vuole cantare Napoli, a piazza Plebiscito, allora non una piazza ma un caotico parcheggio. Peggio: una gigantesca fermata di autobus. Il musicista è Pino Daniele. Con lui tutti gli altri che amavamo quanto lui, soprattutto James Senese l’americano di Secondigliano, il sax e la voce di Napoli centrale; e Toni Esposito, l’uomo che faceva vibrare, con tutto il sound possibile, qualunque oggetto toccasse…
Il tam tam funzionò. Ci andammo tutti, direi anche i ciechi e gli storpi. Non so quanti eravamo: centomila, duecentomila, trecentomila? Boh. Quello che è certo tutta l’anima della città era lì, sospesa a quel palco. Naturalmente sospesa. Senza differenze, tutti insieme, Nella più estrema tranquillità. Fu una vera festa collettiva. Grandiosa, che ancora oggi ogni tanto ricordiamo, come i gol di Maradona, come le battute di Totò.
Un fatto è certo: il miracolo ci fu davvero. Il sangue si sciolse. Di tutti quanti. Perché quella sera Napoli, dopo quasi un anno di silenzio, aveva ricominciato a cantare» (Amedeo Feniello).

Una cosa è certa. Dopo quella sera, Napoli, anzi l’Italia, seppe di avere una Super Band come quelle l’Oltremanica e anche d’Oltreoceano. E forse se ne rese conto quella notte lo stesso Pino Daniele che, come racconta l’amico Peppe Lanzetta, mentre l’entourage festeggiava il successo a base di frutti di mare e vino bianco, se ne stava da solo, emozionato, nell’ultima fila in uno degli autobus che l’avevano portato lì, incredulo per il successo di pubblico, per i consensi, per l’energia che la piazza gli aveva dato.

 

 

 

Ma nel film sfilano una dietro l’altra mille voci. Quelle appunto di chi ha suonato con Pino o magari l’ha conosciuto solo attraverso i suoi pezzi. O che ha apprezzato la persona ricavandone reciproca stima. Renzo Arbore, Stefano Bollani, Ezio Bosso, Lorenzo Jovanotti, Clementino, Roberto Colella, Gaetano Daniele, Enzo Decaro, Maurizio De Giovanni, Francesco De Gregori, Giorgia, Enzo Gragnaniello, Peppe Lanzetta, Maldestro, Fiorella Mannoia, Eros Ramazzotti, Massimo Ranieri, Ron, Vasco Rossi, Sandro Ruotolo, Giuliano Sangiorgi, Daniele Sanzone, Lina Sastri, Alessandro Siani, Corrado Sfogli, Massimo Troisi, Fausta Vetere. Dando per scontata la (onni)presenza protettiva dei sodali Joe Amoruso, Tony Esposito, Tullio De Piscopo, James Senese, Rino Zurzolo. Ognuno con una storia incredibile da raccontare. Ognuno grato per la sua amicizia o anche solo per la sua “filosofia” di vita.

Non è un caso la data di questa presentazione. Il compleanno di Pino, certo, ma anche un modo per festeggiare un “padre”, che con i suoi consigli, i suoi testi forti o le parole d’amore, o malinconiche, o spiazzanti, con le sue “maleparole”, come si dice da queste parti, “c’ha ‘mparàt’ a campa’ ”

«Il tempo è una cosa che già esiste e nella quale noi ci inseriamo. Noi andremo via e il tempo resterà».

Proprio così, ognuno ha la responsabilità di quello che lascia nelle vite degli altri. E Pino ci ha lasciato il suo cuore e la sua musica.

 

 

Pino Daniele – Il Tempo Resterà è una produzione Sudovest con Rai Cinema e sarà distribuito in esclusiva al cinema da Nexo Digital. Riconosciuto come film di interesse culturale nazionale e indicato come Progetto Speciale dal Ministero dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, con il Patrocinio di Siae, sarà presentato il 29 maggio all’Istituto di Cultura Italiana di Bruxelles.

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Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016 https://www.soundcontest.com/buster-williams-4tet-napoli-jazz-winter-2016/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=buster-williams-4tet-napoli-jazz-winter-2016 Mon, 14 Nov 2016 15:03:28 +0000 http://www.soundcontest.com/?post_type=img_gallery&p=14544 Venerdì 11 novembre nel secondo appuntamento della rassegna Napoli Jazz Winter 2016 organizzata dall’Associazione Napoli Jazz Club guidata del bravissimo Direttore Artistico Michele Solipano e arrivata alla sua decima Edizione, il contrabbassista e compositore Buster Williams ha presentato il suo ultimo progetto “Something More”, insieme ad un quartetto stellare composto da Jaleel Shaw al sax […]

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Venerdì 11 novembre nel secondo appuntamento della rassegna Napoli Jazz Winter 2016 organizzata dall’Associazione Napoli Jazz Club guidata del bravissimo Direttore Artistico Michele Solipano e arrivata alla sua decima Edizione, il contrabbassista e compositore Buster Williams ha presentato il suo ultimo progetto “Something More”, insieme ad un quartetto stellare composto da Jaleel Shaw al sax alto e soprano, Eric Reed al pianoforte e Lenny White alla batteria.

Nato in New Jersey, classe 1942, Williams vanta una carriera cinquantennale che lo ha visto imperversare sulla scena musicale internazionale   collaborando e suonando con diversi giganti del jazz come Art Blakey, Chet Baker, Chick Corea, Dexter Gordon, Wynton Marsalis, McCoy Tyner, Sonny Rollins, Count Basie, Errol Garner, Ron Carter, Freddie Hubbard e Miles Davis solo per citare alcuni nomi. Ha affiancato in tour vocalist come Regina Carter e Sarah Vaughan. In qualità di leader ha all’attivo una decina di apprezzati album, oltre ad aver composto colonne sonore per la tv e il cinema, ponendo la sua creatività al servizio di registi del calibro di David Linch, Steven Spielberg e Spike Lee.

Napoli lo accoglie con grandissimo entusiasmo. Il concerto è stato seguito da tantissimi appassionati che hanno potuto godere di una intensa perfomance in un progetto che dà spazio e modo a tutti di esprimere il proprio talento in modo assolutamente strepitoso.

Prossimo appuntamento della Rassegna Napoli Jazz Winter 2016 il 18 novembre Auditorium Salvo D’Acquisto con gli Oregon: Ralph Tower chitarra e piano, Paul Mc Candless oboe, Paolino Dalla Porta contrabbasso, Mark Walker, batteria.

Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   Buster Williams 4tet @ Napoli Jazz Winter 2016   

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