Speciali Archivi - Sound Contest https://www.soundcontest.com/category/speciali/ Musica e altri linguaggi Thu, 26 Oct 2023 08:13:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 PIANO CITY NAPOLI 2023: grande successo per la IX edizione https://www.soundcontest.com/pianocity-napoli-2023-grande-successo-per-la-ix-edizione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=pianocity-napoli-2023-grande-successo-per-la-ix-edizione Fri, 20 Oct 2023 08:37:05 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62606 Dal 12 al 15 ottobre 2023 é andata in scena la IX Edizione di Piano City Napoli: le note del pianoforte hanno riempito chiese, musei, auditorium, luoghi d’arte e case private per una quattro giorni a tutta musica ed il coinvolgimento di 300 pianisti, 24 location e 33 House Concert. Ne abbiamo seguiti tre.   […]

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Dal 12 al 15 ottobre 2023 é andata in scena la IX Edizione di Piano City Napoli: le note del pianoforte hanno riempito chiese, musei, auditorium, luoghi d’arte e case private per una quattro giorni a tutta musica ed il coinvolgimento di 300 pianisti, 24 location e 33 House Concert. Ne abbiamo seguiti tre.

 

Apertura in grande stile all’Auditorium Porta del Parco a Bagnoli, che ospita il sopraffino concerto del pianista Danilo Rea, che, per l’occasione, accompagna la voce ed il carisma dell’eclettico Peppe Servillo.

Napoli & Jazz è il progetto che propone alcuni grandi classici della tradizione canora napoletana rivisitati in chiave jazz dal collaudato duo.

Dopo una breve introduzione al programma della manifestazione ed ai contenuti del concerto, si presenta sul palco il giovane e talentuoso Antonio Roccia che, in qualità di vincitore del Contest “Una musica per Piano City 2023”, riscalda l’atmosfera e ci propone il suo brano che fa da “copertina sonora” a questa edizione del festival.

Ed ecco finalmente i due protagonisti arrivare in scena: dapprima un piano solo di Rea con un avvincente “mix” che alterna Senza Fine di Gino Paoli, Il Pescatore di De Andrè e la Carmen di Bizet.

L’eccezionale Peppe Servillo interpreta magistralmente ed introduce con il suo simpatico carisma Bocca di Rosa di De Andrè, Uocchie c’arraggiunate, Maruzzella di Carosone e Io Te Voglio Bene Assaje.

Di nuovo spazio a Rea in piano solo con un altro appassionante “medley”: A’ Cammesella, Core ‘ngrato e Chiove.

È di nuovo Servillo a prendere in mano le redini del concerto, presentando con dovizia di particolari ed eseguendo magistralmente Era de maggio di Di Giacomo/Costa, Tu sì ‘na cosa grande, Mandulinata Napoletana e Esta(te) di Libero Bovio.

Ed ecco un nuovo intrigante “collage” di Rea: Besame Mucho, Luna Rossa, Moon River, Quizas e Tammurriata Nera.

Il Duo si ricompone per proporre insieme le splendide Resta cu’ mme di Modugno, Reginella e Io te vurria vasa’.

Scroscianti applausi li richiamano sul palco per il bis: propongono quindi Munasterio ‘e Santa Chiara e Dicitencello vuje, che segnano la chiusura di un concerto che suggella un connubio tra le note del piano jazz e la tradizione canora della città di Napoli in modo davvero memorabile.

 

Sabato 14 ottobre la Basilica di San Giacomo Degli Spagnoli in Piazza Municipio ospita “Don’t Forget To Fly”, il concerto del pianista friulano – ma dalle origini partenopee – Remo Anzovino. La chiesa è gremita e l’atmosfera di una platea attenta e silenziosa sono proprio l’ideale per apprezzare il viaggio tra le note che ci apprestiamo ad intraprendere.

L’eleganza e la maestria di Anzovino ci conquistano immediatamente, mentre la prima parte del concerto si snoda in un’unica suite. Un lungo applauso sottolinea il gradimento degli spettatori e dá voce al Maestro, che si racconta e ci narra come il suo senso della melodia sia stato fortemente influenzato dalle sue radici napoletane.

Ci dice che nel sonno ciascuno di noi sperimenta un forte desiderio dell’infinito, che inizia con un volteggiare che fa sì che ciascuno prenda via via confidenza con l’elemento “aria”, mentre si inizia ad osservare quanto ci circonda.

Ha quindi inizio la seconda parte del concerto, in cui la musica ci racconta di desideri che prevalgono sulla paura; si vince dunque la forza di gravità e si comincia a volare con l’obiettivo di raggiungere il sole. Ci si potrebbe bruciare al suo cospetto, ma ciò, fortunatamente, non accade; la luce solare illumina e ci si sente dei vincitori: da quel momento in poi si può fare qualsiasi cosa si desideri.

Il concerto volge al termine ed il Maestro Anzovino ci ricorda che le immagini lasciateci dai sogni sono le chiavi di interpretazione della realtà.

Ci rammenta, inoltre, che l’essere umano è stato progettato per volare: una volta tornati a casa, ci esorta a non dimenticarci di annotare, su di un post-it da attaccare in cucina, l’esortazione “Don’t Forget To Fly!”.

L’entusiasmo è alle stelle ed il Maestro, prima di accomiatarsi, ci regala un estratto da Following Light, la colonna sonora da lui composta per un film dedicato a Claude Monet, che affermò che la luce cambia ogni 7 secondi. La musica che Anzovino ci propone ha a che fare con la luce, i suoi cambiamenti ed il suo significato interiore: c’è infatti la luce che ci consente di vedere ma anche quella, interiore, che emanano alcune persone.

Ci salutiamo con un interrogativo: così come la luce, anche i nostri stati d’animo e le nostre emozioni cambiano ogni 7 secondi: potrà il suono fare altrettanto?

 

Chiudiamo la nostra esperienza a Piano City 2023 spostandoci all’Auditorium Porta Del Parco di Bagnoli, dove, alle 21, applaudiamo la performance in piano solo dell’eccezionale e carismatico Omar Sosa.

La sua esibizione è dedicata ad un tema che sta a cuore a noi tutti, quello della pace; con una sorta di nastro color porpora attira vibrazioni positive intorno al pianoforte, che di questo nastro viene “cinto” per tutta la durata del concerto.

Brani originali si alternano a standard: molto suggestiva è la sua rivisitazione di Imagine di John Lennon, che viene eseguita nell’emozionante silenzio di una platea sold out.

Le mani affusolate del Maestro Sosa, che sembrano letteralmente “volare” sulla tastiera del pianoforte, catalizzano la nostra più profonda attenzione e calamitano totalmente i nostri sensi… siamo così “presi” che non ci accorgiamo che il tempo sta letteralmente volando e siamo già giunti al termine di questo toccante e strepitoso concerto.

 

Grazie Piano City! Alla prossima edizione!

 

 

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PIANO CITY NAPOLI 2022 | Napoli capitale del pianoforte per 4 giorni https://www.soundcontest.com/piano-city-napoli-2022-viii-edizione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=piano-city-napoli-2022-viii-edizione Mon, 17 Oct 2022 14:06:03 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=57919 Dal 13 al 16 Ottobre 2022 si è tenuta l’ VIII edizione di Piano City Napoli. L’evento, organizzato dal Comune di Napoli e dall’Associazione NapoliPiano nell’ambito del progetto “Napoli città della Musica”, ha visto alternarsi 150 pianisti – tra professionisti, studenti e appassionati –  che si sono esibiti per un totale di 115 concerti, quasi tutti con ingresso gratuito. La direzione […]

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Dal 13 al 16 Ottobre 2022 si è tenuta l’ VIII edizione di Piano City Napoli. L’evento, organizzato dal Comune di Napoli e dall’Associazione NapoliPiano nell’ambito del progetto “Napoli città della Musica”, ha visto alternarsi 150 pianisti – tra professionisti, studenti e appassionati –  che si sono esibiti per un totale di 115 concerti, quasi tutti con ingresso gratuito. La direzione artistica del Festival, aperto a tutti i generi musicali, è stata affidata al maestro Dario Candela, con la consulenza di Alberto Bruno (fotogallery) e Ornella Falco dell’associazione Live Tones.
Ad ospitare la rassegna musicale, 17 location: dal tradizionale tempio della musica napoletana, il Conservatorio San Pietro a Majella (dove si sono tenute due maratone di allievi, “piaNoNstop” – in fotogallery), al liceo Melissa Bassi di Scampia, passando per musei, castelli, ville, chiese e per il Molo San Vincenzo, recentemente restituito alla città dopo una lunga ristrutturazione.

Dopo due edizioni di Piano City Milano, si esibisce sia al Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore sia al Castel dell’Ovo per la sua prima esperienza a Piano City Napoli, il Maestro Simone Sassu (fotogallery), che ha dichiarato: «È una felicità incredibile essere qui perché sono stati scelti dei luoghi meravigliosi ed è stata anche riservata la giusta attenzione anche alle periferie e ritengo giusto portare i pianoforti laddove altrimenti non avrebbero mai.»
Del suo progetto “Crossover piano” ci ha spiegato: «“Crossover” è una parola che ho sentito per la prima volta negli anni ’80, quando si parlava di gruppi rock che sperimentavano diversi approcci sonori, diversi stili, diversi linguaggi mischiati tutti insieme. Non voglio dire ‘generi’ perché io penso che i generi musicali non esistano, penso che esistano autori ed interpreti e basta. Io propongo alcune mie composizioni. Come autore, pratico molto sia improvvisazione che composizione estemporanea e naturalmente interpreto anche altri autori. In questo senso, cerco di sviluppare un discorso che parte dall’improvvisazione e poi arriva a toccare temi di autori e stili e linguaggi più disparati possibili.»

Il pianista e compositore Raffaele Grimaldi (fotogallery), che ha presentato una selezione delle sue composizioni originali presso il Museo Civico Gaetano Filangieri, è al suo secondo appuntamento con Piano City Napoli: «Ho già partecipato nel 2019 a Villa De Donato e fu anche all’epoca una bellissima esperienza, secondo me l’organizzazione è impeccabile! Soprattutto penso una cosa: è fondamentale oggi, per i tempi in cui viviamo, portare la musica al cuore della città perché questo genera sensibilità verso la musica e, in questo, il pianoforte si rivela molto utile poiché è uno strumento estremamente emozionale.»

Tra i vari ospiti dello stesso Museo Civico Gaetano Filangieri, il Maestro Ergio Valente (fotogallery) ha sostituito il programmato concerto “Oltre…” di Lorenzo Apicella. Per la sua quinta edizione di Piano City, ma la sua prima in questa location, ha presentato una selezione delle sue composizioni e degli standard jazz riarrangiati da lui per piano solo.

 

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JAZZ FESTIVAL E DINTORNI | Il jazz è contaminazione, ma fino a un certo punto https://www.soundcontest.com/jazz-festival-e-dintorni-il-jazz-e-contaminazione-ma-fino-a-un-certo-punto/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=jazz-festival-e-dintorni-il-jazz-e-contaminazione-ma-fino-a-un-certo-punto Thu, 15 Sep 2022 08:00:19 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=57420 Che il jazz sia storicamente figlio di un Melting Pot stilistico è una verità incontrovertibile. Che questo genere musicale sia frutto di un sincretismo culturale è altrettanto vero. Ma quando si utilizza impropriamente la definizione «jazz» per includere altri generi musicali che, per oggettive caratteristiche ben definite risultano essere parecchio distanti appunto dal jazz, si […]

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Che il jazz sia storicamente figlio di un Melting Pot stilistico è una verità incontrovertibile. Che questo genere musicale sia frutto di un sincretismo culturale è altrettanto vero. Ma quando si utilizza impropriamente la definizione «jazz» per includere altri generi musicali che, per oggettive caratteristiche ben definite risultano essere parecchio distanti appunto dal jazz, si commette un errore madornale. Soprattutto negli ultimi anni, a tal proposito, pullulano festival con la denominazione «jazz» che c’entrano con questo genere come lo zucchero a velo sulle tagliatelle al ragù. Un esempio paradigmatico sul tema è il Montreaux Jazz Festival 2022, fra i più prestigiosi a livello internazionale, che nell’edizione di quest’anno ha ospitato artisti come Gianna Nannini e i Måneskin, manco fossero Ella Fitzgerald e i Jazz Messengers. Con tutto il rispetto per la carriera della Nannini e per il successo finora ottenuto dai Måneskin, rappresentano un’estetica musicale distante anni luce dal jazz, motivo per cui la loro presenza in un festival storico, così importante come quello di Montreaux, è totalmente inconcepibile, insensata e artisticamente irrispettosa nei confronti del mondo jazzistico. Prospettiva che cambia se la si guarda nell’ottica di ottenere il maggior numero possibile di ascoltatori, visto e considerato la popolarità di Gianna Nannini e dei Måneskin, quindi una sorta di operazione commerciale volta a un notevole riscontro di pubblico, ma che va a discapito del jazz.

Sia chiaro, il Montreaux Jazz Festival è solo l’esempio più eclatante, ma esistono (purtroppo!) molti festival “jazz” in Italia che, già da diversi anni, ospitano cantanti pop o cantautori inserendoli nei loro programmi come se fossero jazzisti della prima ora, solo perché accompagnati da musicisti jazz. A onor del vero, vi sono tanti esempi “nobili” di canzoni (anche italiane) destrutturate e trattate a mo’ di standard della tradizione jazzistica, che risultano davvero interessanti. Ma in realtà, nella maggior parte dei casi, i jazzisti che condividono il palco con famosi cantanti pop o cantautori, non fanno altro che suonare esattamente come se fossero musicisti pop, quindi costretti a tarpare la propria creatività improvvisativa. Pertanto, sarebbe molto più intellettualmente onesto da parte di alcuni direttori artistici modificare la definizione «jazz festival» dai loro festival sostituendola con «music festival», in modo tale da non dare adito a conseguenti polemiche.

Ma il jazz, soprattutto negli ultimi anni, fa tendenza – per cui è molto più accattivante usare a sproposito questa espressione per cercare di avvicinare una platea eterogenea che si illude di ascoltare questo genere quando – al contrario – non è assolutamente così. Spesso, anche fra i jazzofili, si parla proprio del jazz come un genere musicale ormai morto, estinto. E questo, sfortunatamente, è a causa di scelte scellerate di certi direttori artistici che si ostinano a intitolare «jazz festival» le rassegne che stridono con il significato autentico di questo termine. Herbie Hancock, ad esempio, per citare una leggenda vivente, rappresenta la quintessenza della contaminazione fra il jazz e altri generi musicali, basti pensare alle sue collaborazioni con artisti del calibro di John Mayer, Sting, Christina Aguilera, Paul Simon, Annie Lennox (e non solo) nel suo disco Possibilities, ma in quel caso la matrice jazzistica è comunque sempre viva e presente, messa in risalto specialmente dal suo inconfondibile pianismo. Oggigiorno, invece, si assiste a un accrocco di musicisti e stili che non hanno né capo né coda. Cosa buona e giusta, dunque, sarebbe se i cantanti pop e i cantautori si esibissero in rassegne dedicate specificamente a quel genere di musica, ma soprattutto sarebbe ora che nei festival jazz, quelli con la “J” maiuscola, si desse spazio a tanti (anche giovani) talenti che parlano il “jazzese”, perché se questo genere musicale non è ancora morto, è pur vero che non gode di ottima salute proprio per colpa di alcuni organizzatori e determinati direttori artistici che per incompetenza o per mero interesse economico, contribuiscono a una becera promiscuità che nuoce al vero jazzista e al jazzista vero. “A buon intenditor, poche parole”.

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SPIRITUALIZED | Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space https://www.soundcontest.com/spiritualized-ladies-and-gentlemen-we-are-floating-in-space/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=spiritualized-ladies-and-gentlemen-we-are-floating-in-space Sun, 01 May 2022 14:03:20 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=55022 Ladies and gentlemen we are floating in space by Spiritualized Ebbene sì. La classe non è acqua e quanti ne possiedono anche solo una parte nelle piastrine del DNA prima o poi la mettono in mostra, con buona pace di tutti i detrattori. Dopo aver vissuto per parecchi anni all’ombra dell’egocentrismo di Pete “Sonic Boom” […]

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SPIRITUALIZED
Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space
Dedicated Records
1997

Ebbene sì. La classe non è acqua e quanti ne possiedono anche solo una parte nelle piastrine del DNA prima o poi la mettono in mostra, con buona pace di tutti i detrattori. Dopo aver vissuto per parecchi anni all’ombra dell’egocentrismo di Pete “Sonic Boom” Kember, a partire dal 1990 la statura artistica di Jason “Spaceman” Pierce si erge senza più ostacoli nello splendido progetto personale Spiritualized.

 

Diventato a sua volta maniaco dittatore, l’ex Spacemen 3 sembra avere dalla sua una vena creativa estremamente prolifica (la discografia degli Spiritualized batte in quantità e qualità quelle di Spectrum, Darkside e Alpha Stone messe insieme), a dispetto di un patologico perfezionismo che lo porta a rielaborare e limare fino al parossismo ogni pezzo registrato in studio.

Alle originali intuizioni dei “tre astronauti” Pierce ha saputo aggiungere tappezzerie psicosoniche colorate di liquida psichedelia elettro-space-gospel, aggiornando, con tanto altro ancora , quelle spigolose trame stoogesiane ed elevetorsiane che in tempi non sospetti avevano dato nerbo all’esplosione dell’ala più ruvida del brit-rock primi anni Novanta.

Negli Spiritualized v’è comunque un innegabile rimando al verbo velvettiano, una mal celata devozione alla lezione di Sun Ra, all’acid blues delle migliori formazioni Sixties unito agli sperimentalismi di gente come Suicide, Silver Apples e Can.

Al Nostro bastarono però appena due passi (“Lazer Guided Melodies” del 1992 e “Pure Phase” del 1995) per metter finalmente piede in quell’Eden sonico che è, ancor oggi, “Ladies And Gentlemen We Are Floating In The Space”. Pubblicato nel giugno del 1997, l’album prende titolo da un passaggio de “Il mondo di Sofia”, romanzo filosofico e bestseller dello scrittore norvegese Jostein Gaarder.

Per confezionarlo Pierce impiegò cinque studi di registrazione diversi e una cinquantina fra musicisti e ospiti: nella fattispecie il Balanescu Quartet (già presente in “Pure Phase”), il London Community Gospel Choir e Dr. John (per il cui contributo Pierce si spostò appositamente negli Stati Uniti).

Il risultato di tanta manovalanza è condensato in dodici fantastiche composizioni per un totale di settanta strabilianti minuti di musica, combattuti tra dissonanti armonizzazioni pop e slanci propulsivi sfarinati in un surreale mantra lisergico, chiassoso e delicato al tempo stesso.

L’iniziale title track accoglie subito l’ascoltatore con modi garbati e gentili, sfoderando tra voci e tastiere, una smerigliata melodia dal sapore quasi canterburiano. C’è anche da sottolineare che il brano divenne subito un caso sia per l’intro vocale (quello dell’ ex tastierista Kate Radley, partner professionale e sentimentale di Pierce che due anni prima dell’uscita del disco era convolata a nozze segrete con Richard Ashcroft dei Verve ), sia per il refrain inglobato di I Can’t Help Falling In Love di Elvis Presley, riguardo al quale gli eredi della star fecero causa e ne vietarono l’uso fino al 2009.

La successiva Come Together è animata da accordi di chitarra vigorosi e da una sezione di fiati che regala al tutto una circolare solennità. C’è poi un incredibile trittico, composto da I Think I’m In Love, All Of My Thoughts ed Electricity, nel quale convivono, con controllata potenza espressiva, combinazioni rhythm ‘n’ blues, tradizione soul, graffianti lineee stoogesiane e sprazzi di acida psichedelia texana. A questo gruppo si contrappongono pezzi più vellutati e allucinogeni (Home Of The Brave e Stay With Me) mentre The Individual e No God Only Religion scorrono su stranianti scenografie di rumorismo sonico e vertiginose orchestrazioni space-jazz.

Nella parte finale della raccolta la musica si sposta su coordinate esteticamente più raffinate (il quartetto d’archi che interviene in Broken Heart) e passionali (il gospel-soul di Cool Waves). Ma tutto ciò è ancora nulla in confronto all’orgia di note e idee che scaturiscono dai diciassette minuti di Cop Shoot Cop, un visionario tornado psichedelico di feedback e decibel mitigato, in momenti diversi, dal canto drogato di Pierce e dal piano in chiave night club di Dr. John.

Dopo tanti anni “Ladies And Gentlemen” resta ancora l’apice artistico degli Spiritualized e un “classico” tra i più memorabili e seminali degli anni Novanta. Un’opera epica e affascinante, eternata dalla luce abbagliante dei suoi dodici inscalfibili diamanti.

Voto: 10/10
Genere: Space Rock / Psych-Pop / Chamber / Jazz-Rock / Gospel

Musicisti:

Jason Pierce – vocals, guitars, hammered dulcimer, piano, autoharp
Kate Radley – organ, piano, synthesizer, backing vocals
Sean Cook – bass guitar, harmonica
Damon Reece – drums, percussion, timbales, bells, timpani
John Coxon – guitars, melodica, synthesizer
Ed Coxon – violin
B.J. Cole – pedal steel guitar
Angel Corpus Christi – accordion
Andy Davis – organ
Dr. John – piano, backing vocals #11 (Cop Shoot Cop…)
Simon Clarke – flute, baritone saxophone
Tim Sanders – tenor saxophone
Terry Edwards – tenor saxophone
Roddy Lorimer – trumpet, flugelhorn
Neil Sidwell – trombone
Tim Jones – French horn
The Balanescu Quartet
London Community Gospel Choir

Tracklist:

01. Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space (I Can’t Help Falling In Love)
02. Come Together
03. I Think I’m In Love
04. All Of My Thoughts
05. Stay With Me
06. Electricity
07. Home Of The Brave
08. The Individual
09. Broken Heart
10. No God Only Religion
11. Cool Waves
12. Cop Shoot Cop

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KING CRIMSON | Red (1974) https://www.soundcontest.com/king-crimson-red-1974/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=king-crimson-red-1974 Wed, 05 Jan 2022 09:51:19 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=53425 Erano passati ormai cinque anni dalla pubblicazione di “In The Court of Crimson King”, il disco a cui fu dato, a torto o a ragione, il sigillo di capostipite di un nuovo filone musicale che dalla terra di Albione si espanse prima di tutto in Europa e in seguito, ma con minore intensità, nel resto […]

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Erano passati ormai cinque anni dalla pubblicazione di “In The Court of Crimson King”, il disco a cui fu dato, a torto o a ragione, il sigillo di capostipite di un nuovo filone musicale che dalla terra di Albione si espanse prima di tutto in Europa e in seguito, ma con minore intensità, nel resto del mondo. Il Progressive Rock dunque nacque con i King Crimson, ed era il 1969 e nel corso degli anni a seguire, ci fu un fiorire di talentuosi artisti che si fregiarono con merito di questa etichetta. Conosciamo più o meno tutti la sequenza di dischi di notevole spessore e, perché no, di sperimentazione, ad opera di quel genio di Robert Fripp che, leader indubbio della band fin dal primo disco decide con “RED”, di chiudere un capitolo: la storia dei King Crimson romantici del Progressive. In realtà il ‘capitolo’ era già da tempo sotto inchiesta, i lavori chitarristici di Fripp nei due precedenti album erano già proiettati verso un futuro che apriva le porte ad una sperimentazione molto più spinta ed audace. Anche la band, reduce da una tournée americana viene in parte rimaneggiata, David Cross viene allontanato e compare solo come session man nei credits del disco. Restano insieme a Fripp (chitarra e mellotron), John Wetton (basso e voce) e Bill Bruford (batteria), tutti gli altri solo pagati a prestazione, e parliamo di Ian McDonald (fiati), Mel Collins (Sax soprano) e lo stesso David Cross (violino).

E’ cosi che nasce “RED”, dopo appena una settimana dalla chiusura del tour americano, i tre si chiudono in studio coadiuvati dai soliti collaboratori storici del Re Cremisi e registrano il disco che traghetterà la lunga stagione del prog su una sponda fatta di chitarrismo squadrato e ossessivo… si aprono le porte al Punk/New Wave. Non a caso il mitico Curt Cobain definì questo capolavoro “il più grande album di tutti i tempi”.

Apre il disco il brano che dà il titolo all’album, ossessivo e penetrante come un trapano nel muro alle 7 di mattina, un riff di chitarra ripetuta all’infinito e sovraincisa a diverse tonalità, i 6 minuti più lunghi di sempre, un’interminabile performance con la lente d’ingrandimento puntata sul gran lavoro di batteria (Bruford, un grande) e basso.

Segue Fallen Angel, la classica ballad alla Crimson, Wetton abbracciato dagli arpeggi graffianti di Fripp e fraseggi di tromba (Mark Charig) e oboe (Robin Miller)… c’è un uso di chitarra acustica che viene usata da Fripp per l’ultima volta con i King Crimson.

One More Red Nightmare chiude il lato A del disco, un pezzo tiratissimo, un riff ripetuto per tutto il brano pare avvolgerci in una spirale tenebrosa, è un tappeto steso a favore dei numerosi interventi di Ian McDonald e Mel Collins ai sax che pare illuminino la voce di Wetton. C’è una struttura di fiati da brividi, tutti in pista a ricamare dietro ad una melodia che vuole farsi spazio ma cede alla potenza di fuoco degli strumenti, qui Bill Bruford è da oscar! Una curiosità, il testo narra di un incidente aereo raccontato come un incubo, testo di Wetton che era terrorizzato dal volare.

Lato B, Providence, solo strumentale, il violino di David Cross dà il via ed è difficile credere che esista uno spartito di questo brano, forse un canovaccio ma niente di più, d’altronde chi ha seguito i King Crimson dal vivo sa cosa vuol dire seguire una traccia ma non sapere tra due minuti cosa si suona. Effetti elettronici, violino elettrificato, chitarra distorta al massimo, il basso ‘slappato’ (e siamo nel ’74!!!) di Wetton ed un lavoro di Bruford da farci studiare su a chi lo strumento vuole suonarlo davvero.

E’ stato solo un preludio finora, quattro brani che portano dritti ad uno dei più bei pezzi mai scritti:

Starless, oltre non si va, una poesia irraggiungibile per chiunque!

Una sinfonia di archi e mellotron che presentano un Wetton che sembra una carezza al cuore, e l’anima di McDonald che prende per mano Fripp in un fraseggio commuovente. La voce miscelata alla malinconia delle note del sax riesce a scaldarci il cuore pur lasciandoci un’immensa tristezza fino alle note prese dalle corde della Gibson e sostenute da una incredibile paranoia creata da una sezione ritmica da ansia crescente… la strada ci porterà dove c’è speranza di trovarsi, o ri-trovarsi, per un cammino dove finalmente si evitano le vie di fuga. Se “RED” è il miglior album dei KC, Starless è l’apoteosi, è tutta lì in 12 e passa minuti di vita assoluta, i primi 4 minuti sono un incanto, quanto di più intenso e profondo possa esserci, un inno all’amore che si perderà nei successivi minuti di profonda tristezza fino alle grida di aiuto del finale, che riprende il tema iniziale accelerando il tempo.

E’ l’epilogo schizoide!

Siamo assai strani noi, ascoltiamo musica da tutta la vita, parliamo dei nostri vecchi dischi e ci brilla una luce negli occhi, ci fa riconoscere tra di noi, ci fa provare le stesse emozioni nello stesso momento e per le stesse cose. La musica ha avuto ovviamente la sua normale evoluzione, ma tornare indietro non è solo nostalgia, noi questa musica non l’abbiamo solo ascoltata, l’abbiamo vissuta, siamo nati con lei, le emozioni di chi giovane oggi ascolta “RED” non possono essere uguali alle nostre, c’è un salto temporale e di esperienze che è incolmabile, il periodo magico non l’hanno vissuto. All’epoca non sapevamo che ascoltavamo il Progressive Rock, allora non capivo che anche loro che la musica la creavano avevano bisogno sì di tecnica, ma soprattutto di anima e di cuore, perché comporre Starless senza questi due ingredienti non è possibile, è per questo che amo questo disco e questo brano più di tutti, sono un inguaribile vecchio romanticone lo so, ma mi piaccio tanto così.

Buona musica.

 

Musicisti

Robert Fripp, Chitarra, Mellotron
John Wetton, Basso, Voce
Bill Bruford, Batteria
David Cross, Violino
Mel Collins, Sax Soprano
Ian McDonald, Sax Alto
Robin Miller, Oboe
Mark Charig, Cornetta

Tracklist

01. Red
02. Fallen Angel
03. One More Red Nightmare
04. Providence
05. Starless

 

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RADIOHEAD | Kid A Mnesia https://www.soundcontest.com/radiohead-kid-a-mnesia/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=radiohead-kid-a-mnesia Sat, 20 Nov 2021 13:12:23 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=52668 KID A MNESIA by RadioheadLa logica del pop muta in proporzione al sentimento estetico di un’epoca. All’alba del terzo millennio, in cui synth, laptop e ProTools hanno definitivamente rubato il posto al classico armamentario di chitarra, basso e batteria, i Radiohead smettono i panni della classica guitar band e comprano un mucchio di attrezzatura digitale […]

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RADIOHEAD
Kid A Mnesia
XL Recordings
2021

La logica del pop muta in proporzione al sentimento estetico di un’epoca. All’alba del terzo millennio, in cui synth, laptop e ProTools hanno definitivamente rubato il posto al classico armamentario di chitarra, basso e batteria, i Radiohead smettono i panni della classica guitar band e comprano un mucchio di attrezzatura digitale per iniziare le registrazioni di “Kid A” (EMI/Parlophone, 2000), album su cui mette ancora mano il produttore Nigel Godrich, lo stesso che fece miracoli per “OK Computer” e del cui apporto si sono serviti anche noti artisti quali Beck, R.E.M. e Pavement.

 

Tra l’ottobre del ’99 e l’agosto del 2000 la band affronta contemporaneamente il lavoro in sala d’incisione (effettuato in quattro posti differenti: Parigi, Copenaghen, Oxford e gli Abbey Road Studios di Londra) e un breve tour europeo durante il quale presenta parte del nuovo materiale. Dalle sessions provengono circa una trentina canzoni, ma solo undici troveranno posto su “Kid A”, con quelle che restano i Radiohead appronteranno, invece, la tracklist del successivo “Amnesiac”.

Pubblicato ad ottobre, “Kid A” (il cui titolo dovrebbe ispirarsi ad un progetto di Carl Steadman riguardante un lavoro di Jacques Lacan battezzato “Kid A In Alphabet Land”) non è accompagnato da alcun singolo, né prima né dopo la sua uscita. D’altronde, recuperare un hit radiofonico dalla scaletta dell’album sarebbe un vano tentativo.

Si tratta, in effetti, di un’opera spiazzante, molto al di là dei consueti canoni stilistici che il gruppo ha sviscerato nei suoi dischi precedenti, lanciata a rotta di collo sulle tracce di un sound squisitamente postmoderno, che filtra con notevole coraggio eterei umori filo-Warp, ariose concenzioni mingusiane (ma potremmo anche dire ellinghtoniane oppure colemaniane) ed iridescente popedelia elettroacustica.

Tuttavia, stando alle dichiarazioni dei diretti protagonisti, il disco più ascoltato durante il periodo in cui “Kid A” veniva lentamente alla luce fu “Remain In Light” dei Talking Heads (ancora loro), indubbiamente uno dei migliori esercizi di commistione tra generi che l’avant pop di tutti i tempi possa vantare. Proprio questo guardare “oltre” l’orizzonte del pop, analizzare e dunque esplicitare cosa si debba intendere oggi per musica pop, rende i Radiohead un gruppo così speciale e unico nel panorama odierno.

Se per “popular” dobbiamo intendere un prodotto musicale fruito su larga scala dalle masse, allora qualcosa ci è più chiaro, ed è possibile fugare anche quel briciolo di scetticismo che risiede nella mente del nostro gentile lettore, giustificando, al tempo stesso, il motivo per cui un disco come “Kid A” debba comunque essere considerato “pop” nonostante sembri volgere da qualche altra parte.

Difatti, non c’è tanto da sottilizzare se ciò che oggi gruppi e artisti ci propinano sia abbastanza rock, molto techno, meno ‘post’ o più ‘avant’ di qualche cosa. È importante invece comprendere che nella fase in cui ci troviamo i mezzi utilizzati dai musicisti sono “popolarmente” cambiati rispetto a quelli tradizionali, così com’è “popolarmente” accettato dal pubblico il fatto che un “pattern” elettronico abbia insito in sé una valenza e un’efficacia “pop” pari a quelle di un canonico giro di chitarra.

Va da sè che la natura o le caratteristiche del medium usato finiscano per influire sulla forma-canzone e sulle sue proprietà ritmico-melodiche, ma se questo stravolgimento preserva comunque quel senso di piacevole ripetitività armonica (“una delle grandi virtù della musica pop è che usa la ripetizione, mentre uno dei suoi più grandi difetti e che spesso la usa fin troppo”, affermò una volta, col suo solito acume, Robert Wyatt), allora la sacrosanta essenza del pop rimane, nonostante tutto, sana e salva.

“Kid A”, allora, non è altro che il prodotto di questa lungimirante visione del pop, una musica creata principalmente con strumenti che dialogano tra loro utilizzando un freddo linguaggio binario. Come ammonisce Thom Yorke in Idioteque, “Ice Age Coming”, “l’età del ghiaccio è ormai alle porte”. Una civiltà avanzata la cui espressione artistica, vuoi per immagini, vuoi per suoni, viene oggi universalmente forgiata “a freddo” con l’aiuto di silenziose connessioni a rete, schede video e potentissimi microchip. Dal punto di vista della sensazione (per non dire del tatto) tutto ciò che l’uomo-artista riesce a creare con questi mezzi ci appare incontaminato e algido ma al tempo stesso ricco di inesauribili forme e possibilità d’essere, guarda caso proprietà, queste, che rinveniamo in un cristallo di ghiaccio visto al microscopio.

Quest’orizzonte di senso può essere tranquillamente ravvisato nella titletrack dell’album, un computer parlante dietro una cortina di liquidi rintocchi e frames elettronici, dove ogni tanto fa capolino il beat di una drum machine mescolato ad una calda linea di basso che impedisce al pezzo di evaporare del tutto nell’etere. In altre parole, gli Autechre, Brian Eno e Aphex Twin citati ognuno a turno, ma in modo assai personale, nel giro di un solo brano.

Trasportata, invece, dalle note di una tastiera Roland (il cui mood richiama un’evanescente melodia liturgica), l’iniziale Everything In Its Right Place si propone quasi mediante la stessa strategia, ma con un pathos e una sensibilità molto più marcati grazie alla sfavillante voce del leader che cresce d’intensità attimo dopo attimo, sfaldandosi a tratti in tremolanti echi sintetici e disturbi di frequenza.

Con The National Anthem, introdotta e sorretta da un poderoso ed inquietante riff di basso (inciso in studio da Yorke stesso) siamo improvvisamente catapultati in una New Orleans versione “Blade Runner”. Un’orchestra di fiati e ottoni impazziti nell’idea di coniugare o quanto meno spingere sulla medesima sponda schegge di pop, frammenti space-rock e rottami funky, trascinati a riva da spaventosi cavalloni free-jazz; un azzardo strepitoso che serve caldi in tavola U2, Primal Scream, Hawkwind, Charles Brown, Sun Ra, Ornette Coleman e, naturalmente, l’ultimo Miles Davis elettrico.

How To Disappear Completely è invece la classica pop ballad intrisa di trasognata malinconia (diremmo quasi sulla scia di Let Down presente su “OK Computer”) che in mano ai Radiohead acquista inevitabilmente il sapore dell’originalità fuggendo da facili clichè. Si tratta di uno dei rari brani dell’album che forza l’attenzione sulla voce del leader, altrove volontariamente relegata in secondo piano oppure trasfigurata nell’accento dagli esperimenti di editing al computer svolti in sala d’incisione.

A seguire Treefingers, un ambient strumentale le cui rarefatte atmosfere diresti completamente riprodotte grazie ad un sintetizzatore mentre ciò che senti non è altro che un “taglia e incolla” operato sulla chitarra campionata di Ed O’Brien. A questa pace si contrappone, tuttavia, il caustico impeto sonico di Optimistic, chitarre e basso che tornano prepotentemente in superficie incapaci però nel seppellire l’ennesima, superlativa prova vocale di Yorke che qui interpreta uno dei testi più espliciti e carichi di significato mai usciti dalla sua penna.

Le sorprese sono però ancora molte ed è davvero un piacere aver a che fare con una band che non offre alcun indizio su ciò che ti offrirà da ascoltare nel brano successivo. Limbo diviene così la stanza degli specchi per le mille possibilità canore del leader, mentre il luccicante ardore techno-industrial di Idioteque dirotta la poetica Radiohead nei pulsanti bassifondi di Chicago e Detroit.

Giusto il tempo per essere avvolti dai nervosi drones kraut rock di Morning Bell (tempo che cammina sui 5/4 e una fluttuante linea di piano a rifinire in lisergia il tutto) ed ecco che chiude il sipario l’onirica e straniante dolcezza di Motion Picture Soundtrack, un brano forse inutile come la breve traccia nascosta che segue, ma che corrobora la tradizione Radiohead d’inserire nei propri album vellutati soundscapes ispirati all’immaginario cinematografico.

Disorientante e un tantino difficile da masticare ai primi ascolti, “Kid A” affascina sulla distanza, proprio perchè progettato come plurisfaccettato corpo unico da esplorare, comprendere ed interpretare secondo l’ansia creativa di chi l’ha generato.

Pur non essendo stato pianificato alcun singolo, tour o video per la sua promozione, il disco balza immediatamente in testa alle classifiche statunitensi rimanendovi per oltre un mese. Le interviste concesse dal gruppo sono sporadiche, ma la tensione generata nei fan da questa anticommerciale scelta di porsi fuori dal raggio dei riflettori si placa allorchè Yorke e soci presenziano il 14 ottobre del 2000 ad una puntata del “Saturday Night Live”, il popolarissimo show americano trasmesso via satellite dalla NBC, eseguendo dal vivo (con ensemble di fiati e ottoni a corredo) National Anthem e Idioteque.

Un avvenimento che deve esser visto non solo come la consacrazione definitiva di un gruppo musicale ormai acclamato, ma anche come il più classico dei rituali “pop” riservati ad uso e consumo delle folle.

Nel frattempo Tom Yorke incrementa il numero delle sue collaborazioni (ricordiamo, giusto di passaggio, le precedenti esperienze insieme a DJ Shadow negli UNKLE di James Lavelle e la sua apparizione cinematografica con Jonny Greenwood nei Venus In Furs, la All Star Band protagonista di “Velvet Goldmine”, pellicola prodotta da Michael Stipe) duettanto dapprima con Bjork nell’album “Selmasongs” (colonna sonora approntata dall’artista islandese per “Dancer In The Dark”, film diretto da Lars von Trier) e giocando poi un ruolo preminente in This Mess We’re In, forse tra le poche cose riuscite di “Stories From The City, Stories From The Sea” album sempre del 2000 intestato a PJ Harvey.

“Amnesiac” (EMI/Parlophone, 2001), quinto album della band, vide invece la luce il 5 giugno dell’anno successivo. Diciamo subito che prendere confidenza con gli undici titoli ivi raccolti costa meno impegno rispetto all’esercizio d’ascolto richiesto da quelli che appartengono a “Kid A”. L’afflato sperimentale che era caratteristica prominente di quest’ultimo non manca di esplodere in diversi episodi, ma si avvertono subito delle differenze con l’opera precedente in ragione di una ritrovata loquacità chitarristica e di un maggiore spazio riservato alla voce “naturale” di Yorke quale strumento principale atto a condurre la melodia.

Il fatto che tutti i pezzi risalgano, come abbiamo già detto, al medesimo periodo in cui venne approntato “Kid A”, ci porta inoltre a pensare che il gruppo abbia posto molta cura su ciò che doveva alla fine apparire in ognuno dei due album. Qualcuno, giustamente, si starà anche chiedendo perché i Radiohead non abbiano scelto di utilizzare tutto il materiale registrato all’epoca per pubblicare un unico doppio album.

Data la notevole sterzata verso un suono adulto e finanche più audace rispetto a quello di “OK Computer” (dove comunque era possibile ravvisare qualche protoidea di quel che poi si sarebbe compiaciuta di diventare la musica dei Radiohead), la pubblicazione di un doppio avrebbe comportato da un lato, per il pubblico, uno sforzo d’identificazione con l’attuale registro sonoro della band abbastanza traumatico (molti già stentavano, all’epoca di “OK Computer”, a riconoscersi nei Radiohead di Creep oppure di My Iron Lung), dall’altro, per le composizioni, il pericolo che potesse andar smarrita (nella fatica di un tempo maggiore d’ascolto) la concentrazione adatta per apprezzare al massimo grado tutte le idee e le sfumature ritmiche da esse proposte.

Più saggia, dunque, la strategia di elargire e lasciare sedimentare questa nuova visione del pop nel letto di due distinti album. Ma è poi una nuova visione del pop o, piuttosto, una vera e propria “amnesia” del pop quella che i Radiohead elargiscono con “Amnesiac”?. Diciamo po’ l’una e po’ l’altra insieme.

Al pari di Giano bifronte il disco mostra due facce sulla stessa medaglia. Come Tom Yorke sottolineò in un’intervista, “osservando l’immagine riportata sulla copertina di “Kid A” si ha come l’impressione di stare a guardare le fiamme di un incendio da lontano. “Amnesiac” è sotto forma di suono quel che si dovrebbe provare stando fisicamente tra quelle fiamme”.

Indubbiamente la sensazione di “freddo” che avvertivamo in “Kid A” si attenua adesso per lasciar posto ad un groove sonoro più caldo e avvolgente, sul quale transita la dolente malinconia e l’acuto senso allegorico-simbolico delle parole.

“Amnesiac” si apre con Packt Like Sardines In A Crushed Tin Box, austero battito tribale scandito dal suono di un oggetto metallico percosso metronomicamente (una pentola da cucina, un tubo di ferro? Chissà …) al quale si affianca poco dopo un incisivo drumming elettronico. Poi chitarra e basso all’unisono e la voce quasi irriconoscibile (diresti quasi che sia un altro a cantare) di Yorke che domina senza sforzo sopra un luna-park di loop, campionamenti e pattern digitali. Ottimo inizio, alla faccia di chi dava già per spacciato il propulsivo senso melodico del gruppo.

Al contrario, la successiva Pyramid Song nasce lenta e ipnotica dai tasti impacciati di un piano acustico. Spunta poi una batteria che sembra avere difficoltà nel seguire il tempo del pezzo, nel cui cuore s’impianta un flessuoso suono d’archi avviluppato intorno alla voce in trance del leader.

Con Pull/Pulk Revolving Doors siamo giusto dalle parti di DJ Shadow o simili. Voce trattata al sampler, scratches, bassi distorti, sbuffi hip-hop ed effetti sonori da video-games. You And Whose Army? inizia con un canto sommesso e un tenue arpeggio di chitarra. Poco alla volta entrano in gioco gli altri elementi della band con basso, batteria e piano, mentre il canto, sempre soave, si eleva prepotentemente al cielo.

I Might Wrong propone, da par suo, un’atmosfera sinistra e sintetica. Il ritmo, veloce ed incisivo, proviene principalmente da un’accentuata chitarra new wave, un basso slappato che scorreggia il funky nero-catrame dei Gang Of Four e da breakbeats affilati come lame di rasoio, mentre la voce di Yorke si deforma e sdoppia in un fascinoso gioco di echi.

Knives Out è, al contrario, la canzone più “tradizionale” dell’intera raccolta poiché richiama, sia nella trascinante melodia delle chitarre che nella linea vocale in falsetto, il sempreverde guitar-pop degli Smiths. Risultato: un’obsoleta, ma sempre piacevole, visione del pop.

Lessata in un mood più atmosferico e sub-lunare The Morning Bell/Amnesiac è, invece, il sottile cordone ombelicale che lega “Amnesiac” a “Kid A”. Segue Dollars & Cents, che propelle la sua anima jazzy nel ticchettio del charleston, mentre gli arrangiamenti di tastiere, basso e di una chitarra leggermente dissonante rivolgono lo sguardo al minimalismo cosmico di Faust e Can. Risultato: chiara amnesia pop.

Ancora dopo, Hunting Bears è musica informale che respinge ogni tentativo di mutarsi in melodia, un lento e breve strumentale contraddistinto dalla cadenza asciutta, pacata (quasi faheyana), di una solitaria chitarra acustica.

Like Spinning Plates rimane invece sospesa dalle parti di una costellazione astrale a noi sconosciuta. La voce di Yorke tocca in alcuni momenti il climax celestiale dei toni wyattiani, mentre alle sue spalle il suono di un moog kraut rock fluttua sopra il ribollente magma sonoro prodotto da microtoni e frequenze di chiara matrice autechriana.

Il compito di chiudere il sipario spetta, infine, ad una canzone davvero bella quanto atipica nell’ambito del registro sonoro Radiohead. Life In A Glass House è, infatti, una profumata ballad jazz-blues con fiati e orchestra stile Kansas City anni Cinquanta, interamente bagnata dalle note di un languido piano pinkfloydiano.

Tirando le somme, “Amnesiac” rafforzò la statura e il successo di una band estremamente brillante, capace come poche di giungere subito al nocciolo in tanti modi diversi.

Per celebrare i vent’anni dalla loro pubblicazione i due album sono stati adesso (giustamente) ricongiunti in una ristampa “Deluxe” efficacemente ribattezzata “Kid A Mnesia” (XL Recordings, 2021). Sebbene non rimasterizzata, l’edizione in vinile e in CD aggiunge come “bonus” un terzo disco contenente diverse outtake, qualche inedito e un paio di b-side.

Purtroppo, è proprio questo terzo disco (intitolato “Kid Amnesiae”) che lascia un po’ l’amaro in bocca e tradisce le aspettative rispetto a quanto già proposto ufficialmente dalla band con i due capolavori sopra esaminati. Il tutto si riduce a circa trentaquattro minuti di musica per un totale di dodici tracce in cui le uniche verità (semi)nascoste portano come titolo If You Say The Word e Follow Me Around.

Nella sua svenevole foggia elettroacustica il primo pare cozzare e fare esteticamente a pugni con l’aura spregiudicata ed elettronicamente sperimentale da cui discendono il repertorio e il clima di “Kid A” ed “Amnesiac”, sembrando più aderente alla stagione a cavallo fra “The Bends” e “OK Computer”. Al contrario, il secondo è uno straniante folk pseudopastorale per sola voce e chitarra acustica, già assaggiato e avvistato nel 1998 nella colonna sonora del film-documentario “Meeting People Is Easy”.

Prima e dopo questi due brani trovano poi posto Fog (Again Again Version) e Fast-Track (rispettivamente retri dei singoli Knives Out e Pyramid Song) insieme a tre spicci frammenti strumentali (tra cui Untitled V2 sembrerebbe un abbozzo di Pulk/Pull, qui presente con il testo di True Love Waits sdoganato anni più tardi in “A Moon Shaped Pool”) e altra minutaglia prescindibile come gli arrangiamenti con archi di Pyramid Strings e How To Disappear Into Strings, The Morning Bell in chiave strumentale e una Like Spinning Plates resa più patetica e terrestre dagli accordi di un piano in forte evidenza.

Insomma, un’occasione mancata e un’operazione commerciale che nulla aggiunge alla straordinaria valenza degli album gemelli separati alla nascita. Assai meglio si comportò, invece, la Parlophone nel 2009 con la ristampa in edizione limitata di “Kid A”, includendo in quel box un ottimo disco aggiuntivo di materiale dal vivo e un DVD che documentava l’esecuzione nel 2001 di The National Anthem, The Morning Bell e Idioteque davanti le telecamere americane del “Later Show” di Jools Holland.

Alla fine vien da chiedersi se i Radiohead ci abbiano davvero aperto tutte le stanze segrete delle sedute di registrazione di “Kid A” ed “Amnesiac” oppure se avanzi ancora qualcosa di speciale. Forse, così come accadde con il rilascio ufficiale della cornucopia di materiale raro e inedito dei “Minidiscs Hacked”, bisogna solo sperare che qualcun altro, nel dark web, forzi con cattive intenzioni i loro archivi personali. Chissà!

La verità è che, anche senza questi e altri possibili contorni, le canzoni di “Kid A” ed “Amnesiac” offrono da sole ancora tante soddisfazioni e spunti di riflessione.

Genere: Alternative Rock / Experimental Pop / Electronic

Musicisti:

Thom Yorke – vocals, keyboards, programming, guitar, bass
Johnny Greenwood – guitar, samples, synthesizer, ondes Martenot
Ed O’ Brien – guitar, programming
Colin Greenwood – bass, programming
Phil Selway – drums, percussion, programming
Nigel Godrich – production, engineering, mixing
The Orchestra Of St. John’s – strings

Tracklist:

Kid A
01. Everything In Its Right Place
02. Kid A
03. The National Anthem
04. How To Disappear Completely
05. Treefingers
06. Optimistic
07. In Limbo
08. Idioteque
09. Morning Bell
10. Motion Picture Soundtrack
11. Untitled (Hidden Track)

Amnesiac
01. Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box
02. Pyramid Song
03. Pulk/Pull Revolving Doors
04. You And Whose Army?
05. I Might Be Wrong
06. Knives Out
07. Morning Bell/Amnesiac
08. Dollars And Cents
09. Hunting Bears
10. Like Spinning Plates
11. Life In A Glasshouse

Kid Amnesiae
01. Like Spinning Plates (‘Why Us?’ Version)
02. Untitled V1
03. Fog (Again Again Version)
04. If You Say The Word
05. Follow Me Around
06. Pulk/Pull (True Love Waits Version)
07. Untitled V2
08. The Morning Bell (In The Dark Version)
09. Pyramid Strings
10. Alt. Fast Track
11. Untitled V3
12. How To Disappear Into Strings

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JETHRO TULL | Aqualung https://www.soundcontest.com/jethro-tull-aqualung-2/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=jethro-tull-aqualung-2 Sun, 24 Oct 2021 11:20:09 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51979 Nel 1971 i JETHRO TULL pubblicano il loro quarto album dando seguito allo stile del periodo che voleva che i lavori pop seguissero il tema unico nello sviluppo dei brani. Il concept album fu AQUALUNG che trattava, nei testi soprattutto, la superficialità dilagante nella società, e le contraddizioni della religione.

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JETHRO TULL
Aqualung
Reprise Records
1971

Anziché studiare a scuola studiavo sui dischi, sul Ciao 2001, che era quasi l’unica rivista musicale esistente all’epoca, mi innamoravo di qualsiasi cosa riguardasse la musica che era (ed è) l’unica cosa che non ti tradiva, me la ritrovavo sempre lì disponibile, un disco, uno strumento, un articolo, un concerto… tutta per me senza nessun altro che te la potesse portar via, non avevo paura di perderla, era (ed è, ribadisco) tutta mia.
Ricordo il rammarico in quegli anni da adolescente di non essere nato in tempo per vivere appieno la nascita di movimenti musicali e di artisti che già avevano scritto parte della storia del Rock.

Mi capitò di innamorarmi della copertina di Stand Up, un disco che non avevo mai ascoltato e che scoprii (il rammarico, appunto) già vecchio di un paio d’anni. Nell’espositore del negozio di dischi, sotto al separatore ‘Jethro Tull’  trovai Aqualung, fresco di arrivo, decisi di prenderlo subito. Facevo sempre gli stessi gesti quando compravo un disco, uscivo dal negozio vicino casa con la busta stretta in mano,  a passo svelto tornavo a casa, pulsante in ON sullo stereo, e via a scartare il LongPlaying… quel profumo di disco nuovo mi inebriava mente e anima, come quando riconosci la donna che ami dal suo odore e ad occhi chiusi gli dai tutto te stesso fidandoti completamente… meravigliosamente perso…

Arrivai quindi con qualche anno di ritardo sui JT, cominciai praticamente con il loro 4° album e la formazione era quasi la stessa dal 1967 ma proprio a partire da Aqualung il bassista Jeffrey Hammond, chiamato dal suo vecchio e caro amico di Jan Anderson, andò a sostituire Glen Cornick. Ed è proprio a Jeffrey (a cui per scherzo fu aggiunto un secondo Hammond al cognome) che si scoprì poi che gli furono dedicati tre brani, uno per disco da This Was, Stand Up e Benefit ben prima del suo arrivo nella band.

Aqualung compie quest’anno il mezzo secolo, portato benissimo direi e, se non fosse che il Progressive oggi sia considerato dai più così anacronistico, sarebbe potuto essere stato pubblicato anche qualche anno fa senza sfigurate affatto, anzi! Ho quindi colto l’occasione del 50° compleanno per ascoltare con rinnovata passione quest’opera d’arte del 1971 che, già a partire dalla copertina incuriosisce non poco: è un dipinto di Burton Silverman, fatto ad acquarello,  che lo stesso autore (nato nel 1928 in America) dichiara essere un suo autoritratto e che il furbo Jan prende ad esempio e si esibisce vestendosi in modo molto simile al barbone raffigurato, per cui nell’immaginario collettivo il frontman diventa ‘quello della cover’, il clochard Aqualung. Capelli arruffati e barba lunga non curata unita ad un abbigliamento trasandato con tanto di cappotto strappato, diventano il ‘marchio’ estetico della band che ancora vive in noi oggi. Si dice che le tre opere originarie di Silverman che vengono raffigurate come front cover, interno (la band al completo) e retro copertina (lo stesso barbone seduto sul bordo di un marciapiede con un cane) siano state pagate all’artista americano 1500 dollari e siano oggi di proprietà di un collezionista.

Il disco si sarebbe dovuto intitolare My God ma, a causa di un bootleg uscito in quel periodo con quel nome, la band decise per Aqualung per non inficiare la vendita dell’LP ufficiale. Curiosamente, nonostante Jan Anderson non avesse mai dichiarato che Aqualung fosse un ‘concept album’, la critica lo ha sempre definito tale. Intanto le due facciate vengono intitolate rispettivamente Aqualung (lato A) e My God (lato B) ed i temi sviluppati nel disco effettivamente sono due, nel primo lato, l’argomento trattato si rivolge ad un sentimento di disumanizzazione della società affrontando la compassione ed il disprezzo rivolti verso i propri simili (vedi il barbone in copertina e nel retro) mentre il lato B narra delle ipocrisie della religione e le contraddizioni che l’uomo spesso subisce passivamente senza relazionarsi in modo più sincero verso la stessa, e qui si vada ad osservare l’interno della copertina dove la band viene raffigurata all’interno di una chiesa in atteggiamenti e abbigliamenti non consoni all’ambiente. Dissacrante di certo.

JETHRO TULL si lasciano un po’ indietro il blues suonato nei precedenti album, strizzano l’occhio al rock più duro con riff di chitarra sporcata da distorsori che prima non erano usati con così tanta frequenza, il brano d’apertura Aqualung, lo sancisce a pieno titolo, anche gli assoli chitarristici vengono suonati con il piglio del miglior rockettaro, tanto che anche Jimmy Page, che si trovava nello stesso studio durante le registrazioni del brano (stava incidendo il IV album con gli Zeppelin), ebbe modo di complimentarsi per il lavoro di Martin Barre. La costruzione musicale sostiene in modo perfetto i testi che pare vengano urlati verso il barbone che guarda in modo molesto le ragazzine a passeggio. Emblematico l’urlo ‘Hey Aqualung’ come un rimprovero, una condanna per l’atteggiamento del personaggio.

Anche Cross-eyed Mary tratta lo stesso argomento, qui è una ragazzina (Mary, strabica) che rivolge le sue attenzioni a uomini molto più maturi della sua giovane età, provando a prostituirsi scegliendo con  cura soggetti ricchi e pretendendo salati pagamenti. Ed anche qui la musica viene a sostegno del testo con intrecci di mellotron (riproducendo sezioni di archi) e flauto; questo brano verrà spesso eseguito dal vivo e diventerà, per la sua stessa costruzione melodica, un marchio di fabbrica per la band.

Passo velocemente da Mother goose, dove i flauti soprano e alto si rincorrono con arpeggi di chitarra acustica, ad un brano che, di tutta la produzione dei Jethro Tull, mi sta veramente nel cuore…

Wond’ring aloud, una perla davvero unica, peccato duri poco, troppo poco (in questo periodo la sto ascoltando a ciclo continuo),  appena 1’53” minuti di tenerezza e amore. Racconta di un uomo che al mattino, sveglio dopo una notte accanto alla sua amata donna, sente i profumi della colazione che Lei gli sta preparando. La donna arriva da lui e sparge briciole di pane tostato sul letto, la guarda e dolcemente scuote la testa sorridendo… il testo recita ‘Last night sipped the sunset, my hands in her hair…l’altra notte ho assaporato il tramonto, le mie mani nei suoi capelli, ed ancora ‘And it’s only the giving that makes you what you areEd è solo il donare che ti rende quello che sei. Che altro dire, chitarra acustica con un sognante tappeto al pianoforte con la chitarra di Barre a contrappuntare e sottolineare la magnificenza di un momento di vita che resta indelebile nella storia di chiunque. E’ una ballad degna della migliore produzione mai ascoltata, il brano che più mi colpì all’epoca ed ancora oggi mi tocca profondamente. Nel seguito  troverete una versione ‘long’ di questo brano, vi esorto ad ascoltarlo.

Il lato Aqualung si chiude con Up to me, e qui si ribalta la storia precedente, lei vive un rapporto instabile ma che per fortuna di entrambi finisce sempre bene, perché nonostante tutto lei torna sempre dall’uomo che la rende felice… ‘she’s running up to me’! La matrice è un blues che però sviluppa un particolare colloquio tra percussioni e flauto che sottolineano la relativa leggerezza del brano (come costruzione musicale) pur trattando un argomento non certo poco ‘leggero’.

Siamo al cambio di facciata, lato B intitolato My God, sovverte la logica del rapporto degli uomini con Dio, qui si immagina che l’uomo ha creato Dio per cui tutto è manipolato al contrario. In alto a destra, sul retro della copertina, ci sono 9 punti che dovrebbero chiarire (nelle intenzioni dell’autore) in che modo l’ordine sia sovvertito, e ricorre il tema del disco che viene sviluppato in My God in modo più esplicito esaltando il disprezzo dell’uomo verso i suoi simili. E’ un blues classico che richiama le sonorità di Aqualung, con chitarre belle toste e ritmo trascinante,  così come il blues seguente Hyman 43, dove la chitarra assume un ruolo quasi da voce ‘incazzata’. Infatti l’accordo preso senza spingere le corde sulla tastiera ma suonato col plettro quasi a percussione (la tecnica usata si chiama ‘hacking’), ricorda le urla dei predicatori all’indirizzo dei suoi seguaci. Anche qui il testo fa riferimento ad uno dei classici riti religiosi, siamo in chiesa e viene esposto il cartello ‘Inno 43’, ad indicare che i fedeli sono invitati a cantare appunto l’inno che ad un certo punto recita ‘’…O Padre nell’alto dei cieli, sorridi a tuo figlio quaggiù, che è indaffarato nei suoi giochi di soldi, con la sua donna e la sua pistola…’, ed a chiusura di ogni strofa, si ripete la frase ‘Oh Jesus save me!’.

Slipstream, altra piccola perla (brevissima) suonata con due chitarre acustiche che fungono una da base, arpeggiando l’accompagnamento e l’altra fraseggia con la melodia. Gli archi entrano in un secondo momento, quasi ad imitare il suono dell’acqua che rumoreggia creado l’ultimo vortice, il ‘risucchio’ appunto, qui questa parola viene usata metaforicamente per far riflettere sull’ultimo atto del prete (cameriere di Dio) a cui si dà la mancia prima di ricevere il ‘conto’… il riferimento è alla morte.

Segue uno dei cavalli di battaglia ‘live’ dei JT, quella Locomotive breath che chiude da decenni i concerti di Anderson & Co. e che si apre col pianoforte di Evan per poi racchiudere tutti gli altri strumenti in un crescendo che ormai è storia, e non solo dei Jethro Tull. Ancora la tecnica dell’ hancking sulla chitarra di Barre che accompagna all’ascolto di uno dei migliori assoli di flauto del menestrello di Blackpool.

Siamo all’epilogo, Wind up chiude l’album in modo strepitoso, musicalmente è strutturato in tre parti: quella iniziale con una voce quasi narrante accompagnata dalla chitarra acustica dove pian piano si ascolta  il pianoforte prendere forza fino a quando la voce ritorna ai normali toni sorretta prima dai riff di chitarra elettrica, e poi  seguita da tutto il resto degli strumenti, ed infine chiudersi così come iniziata, con la voce quasi sussurrata. Nel testo la denuncia finale nei confronti delle istituzioni religiose è più esplicito, Il protagonista (lo stesso Anderson?) accusa il cattivo rapporto con i ministri di Dio che parlano in suo nome ma che in realtà l’autore definisce mistificatori e ingannevoli servi di un sistema che lo hanno indottrinato (‘caricato’ come un orologio la domenica a messa) sin da piccolo, dai banchi di scuola, alle lezioni di catechismo. E’ così che il protagonista alla fine si lascia tutto alle spalle, si disfa delle regole e cercherà, da quel momento, un rapporto più vero, sincero e personale con Dio.

Buona musica.

 

(Il tempo passa ma la classe e il valore di certi musicisti e di alcune composizioni musicali restano gli stessi. Di seguito una versione “orchestrale” di Aqualung del 2004, quindi molto più recente, interpretata dallo stesso Anderson accompagnato dalla Neue Philharmonie Frankfurt diretta dal M.o John O’Hara.)

Musicisti:

Ian Anderson, voce, chitarra folk, flauto
Martin Barre, chitarra
John Evan, pianoforte, organo, mellotron
Jeffrey Hammond, basso, flauto dolce, voce
Clive Bunker, batteria, percussioni

Tracklist:

Lato A – Aqualung

Aqualung – 6:31
Cross-Eyed Mary – 4:06
Cheap Day Return – 1:21
Mother Goose – 3:51
Wond’ring Aloud – 1:53
Up To Me – 3:14

Lato B – My God

My God – 7:08
Hymn 43 – 3:14
Slipstream – 1:13
Locomotive Breath – 4:23
Wind Up – 6:01

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WISHBONE ASH | Live dates https://www.soundcontest.com/wishbone-ash-live-dates/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=wishbone-ash-live-dates Fri, 08 Oct 2021 18:06:45 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51648 Il loro debutto discografico avvenne nel 1970, con un album che portava il loro stesso nome e che conteneva brani che per anni i W.A. avevano portato in giro nei locali e nei concerti. La vena progressive era evidente nella costruzione dei brani, così come i richiami al folk nelle voci, ma la matrice hard la faceva da padrona soprattutto con l’uso delle chitarre che erano diventate il marchio di fabbrica del gruppo.

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Se oggi ascoltiamo e apprezziamo tanto l’hard rock e l’heavy metal, probabilmente lo dobbiamo in buona parte ai Wishbone Ash, addirittura Steve Harris degli Iron Maiden in un’intervista dichiarò che per capire i loro primi lavori bastava ascoltare ARGUS dei Wishbone Ash… se lo dice lui!

La band originaria si formò verso la metà degli anni 60 in una piccola cittadina del Devon, Torquay in Gran Bretagna dove i fratelli Turner, entrambi chitarristi e con l’aggiunta di Phil Hesketh alla batteria formarono i Torinoes. Solita gavetta, cambi di formazione, nome e città nel corso degli anni li portarono infine all’incontro con Miles Copeland (fratello di Stewart Copeland, batterista prima di Curved Air e poi di Police) manager in erba, che si adoperò per trovare un nuovo chitarrista, visto che Glenn, uno dei due fratelli fondatori della band decise di abbandonare il gruppo. Arrivarono ben due chitarristi Ted Turner (stesso cognome ma nessuna parentela con Martin) e Andy Powell che sarebbero stati, nel corso degli anni a venire, l’anima blues/rock del W.A.

Da quel momento lo show business cominciò a girare nel verso giusto, nel ’69 si fecero notare dal pubblico dei concerti, aprendo gli show ai Ten Years After, Black Sabbath e altri fino a quando un certo Ritchie Blackmore chiarrista dei Deep Purple, li notò una sera che aprirono un loro concerto e li presentò alla MCA Records dove ottennero finalmente un contratto.

Il loro debutto discografico avvenne nel 1970, con un album che portava il loro stesso nome e che conteneva brani che per anni i W.A. avevano portato in giro nei locali e nei concerti. La vena progressive era evidente nella costruzione dei brani, così come i richiami al folk nelle voci, ma la matrice hard la faceva da padrona soprattutto con l’uso delle chitarre che erano diventate il marchio di fabbrica del gruppo. Riuscivano a creare intrecci ritmici senza mai sovrapporsi o darsi fastidio l’un l’altro, e nelle esibizioni dal vivo lo si intuiva chiaramente che entrambi i chitarristi lavoravano insieme per il gruppo e non per mettersi in evidenza a discapito dell’altro.

L’anno successivo arriva nei negozi Pilgrimage, un altro ottimo prodotto che questa volta strizza l’occhio al jazz-rock, i brani strumentali sono più di quelli cantati e il disco arriva alla posizione n. 14 della classifica di vendita in Inghilterra. Durante le registrazioni, negli studi è presente John Lennon a cui era stato raccontato delle notevoli performance di Turner come chitarrista, infatti lo volle con lui per fargli incidere l’assolo presente nel brano Cripled Inside, che verrà incluso poi nell’album Imagine.

Arriviamo al 1972, quando vede la luce il disco forse più apprezzato dei Wishbone, quel ARGUS che tutti citano per indicare ‘l’opera’ della band inglese, e non a caso è quello che vende di più. E’ il periodo dei concept album ed anche questo pare non sfuggire alla regola, nessuno del gruppo conferma ma l’ambientazione da ‘leggende e guerre celtiche’ dei testi, ben supportati da un ritorno più marcato al progressive e dalla bellissima cover prodotta dallo Studio Hipgnosys, porta inevitabilmente a queste conclusioni, peraltro mai smentite ne da Andy Powell ne dagli altri della band.

L’anno seguente segna la prima avvisaglia di un calo d’ispirazione degli autori, non è un buon momento per WISHBONE FOUR (il quarto album che nasce tra episodi sfortunati come il furto di tutta la strumentazione durante un tour in America e conseguente annullamento delle successive date e un ricovero d’urgenza per Martin Turner appena rientrato in Inghilterra) che ricordiamolo, avrebbe almeno dovuto tenere il passo del precedente capolavoro, quell’Argus mai più avvicinato da nessun altro lavoro della band. Intanto la MCA continua a voler sfruttare il momento favorevole per le vendite e preme gli autori affinché si producessero in nuove session per tirar fuori altri dischi.

E’ così che viene pubblicato un doppio live tratto da registrazioni fatte durante un tour del 1973 in Gran Bretagna. Qui ci troviamo il meglio della produzione Wishbone, le chicche sono tutte qui suonate in modo superlativo e la band è al meglio, sezione ritmica possente e precisa, le due chitarre indiscusse regine del palco a rincorrersi tra una nota e un assolo, l’hard qui si sente molto più chiaramente rispetto ai dischi in studio, loro sono soprattutto una ‘live band’. Da segnalare una stupenda versione del brano di apertura del concerto The King Will Come e Throw Down the Sword, altra perla. Una versione da 17 minuti di Phoenix (dal loro disco d’esordio), una psichedelica The Pilgrim (da Pilgrimage) e quasi tutto il secondo lato di Argus riproposto in versione, se possibile, più hard.

Per chiudere, una piccola nota a margine: nel corso degli anni questo disco – LIVE DATES, che raccoglie il meglio della produzione dei W.A. – l’ho acquistato tre volte… l’ultima tre giorni fa, invogliato da una recensione di Argus che mi ha fatto tornare la voglia di riascoltarlo.

Buona musica a tutti

Tracks:

The King Will Come
Warrior
Throw Down The Sword
Rock ‘n Roll Widow
Ballad Of The Beacon
Baby What You Want Me To Do
The Pilgrim
Blowin’ Free
Jailbait
Lady Whisky
Phoenix

 

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RENATO CAROSONE | Come, nel dopoguerra, un napoletano geniale conquistò il mondo con la sua musica https://www.soundcontest.com/renato-carosone-come-nel-dopoguerra-un-napoletano-geniale-conquistava-il-mondo-con-la-sua-musica/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=renato-carosone-come-nel-dopoguerra-un-napoletano-geniale-conquistava-il-mondo-con-la-sua-musica Thu, 18 Mar 2021 12:58:13 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=48834 Non si può non ricordare, dopo cento anni dalla nascita e a vent’anni dalla sua scomparsa, quel Renato Carusone che poi, probabilmente a causa dei frequentissimi errori di trascrizione anagrafica dell’epoca, al secolo fu meglio conosciuto come Renato Carosone. Resta unico e ineguagliato il ruolo di caposaldo e di precursore, l’atteggiamento visionario, la capacità di […]

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Non si può non ricordare, dopo cento anni dalla nascita e a vent’anni dalla sua scomparsa, quel Renato Carusone che poi, probabilmente a causa dei frequentissimi errori di trascrizione anagrafica dell’epoca, al secolo fu meglio conosciuto come Renato Carosone. Resta unico e ineguagliato il ruolo di caposaldo e di precursore, l’atteggiamento visionario, la capacità di dare una svolta e una veste nuova alla canzone napoletana, che rappresentò la sua figura nello spianare la strada all’evoluzione della musica in Italia dopo il ventennio oscuro e la guerra che ne era seguita.
Ancora una volta, questa grande rivoluzione partiva da Napoli, dove Renato era nato nel 1920.

Aveva dimostrato prestissimo interesse e predisposizione per la musica, la sua prima maestra di pianoforte fu la madre stessa che, purtroppo, morì prematuramente. Il padre volle però che continuasse i suoi studi e così fu affidato a diversi maestri dell’epoca e così, a soli quattordici anni, ebbe la sua prima scrittura nel mondo dello spettacolo.

Dopo essersi diplomato in pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, a soli diciassette anni, si imbarcò verso l’Africa del nord, e sbarcò a Massaua, in Eritrea, con un’improbabile compagnia teatrale. Si spostò poi ad Addis Abeba, dove rimase a suonare fino al 1940, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e fu chiamato alle armi e inviato al fronte nella Somalia Italiana.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’esercito degli Stati Uniti, per mantenere alto il morale dei suoi soldati, inviava presso i propri centri di ricreazione grossi quantitativi di fonografi e di un nuovo tipo di dischi, chiamati V-Disc (dischi della vittoria) fabbricati in vinile con una nuova tecnologia che avrebbe poi aperto la strada alla diffusione di massa della musica nel dopoguerra. Sui V-Disc erano incise, appositamente per i soldati al fronte, canzoni e musica ballabile e da ascolto dai maggiori musicisti e cantanti americani. Quindi, attraverso le frequentazioni coi soldati statunitensi, si andavano diffondendo generi musicali “nuovi”, lo swing, il blues, il jazz, il boogie-woogie, il cha cha cha, il rock and roll. Furono probabilmente le migliori opportunità che Renato – come un po’ tutti i musicisti suoi contemporanei che poi si sarebbero avvicinati al jazz – ebbe per conoscere più approfonditamente la musica di George Gershwin, Cole Porter, Duke Ellington, che anche Carosone presto acquisì e fece sua.

Finita la guerra, Carosone tornò in Eritrea, dove divenne direttore artistico di un locale notturno ad Asmara ed ebbe così modo di sperimentare e, grazie al suo talento, mettere in pratica con successo tutto quanto aveva imparato di quei nuovi generi musicali. Nel 1946 tornò in Italia, dove passò qualche anno tra Roma e Napoli, con incerte fortune, finché non fu coinvolto nell’inaugurazione un nuovo locale a Napoli, lo Shaker Club. Per quella serata intendeva formare una nuova band.

Le fortune di Renato Carosone sono indubbiamente riconducibili al suo talento, alle sue grandissime capacità di musicista e di showman, alle sue doti di band leader, ma non possono in nessun modo prescindere dall’affiancamento di altri due grandissimi talenti artistici: il chitarrista olandese Peter Van Wood e il napoletanissimo batterista Gennaro Di Giacomo, detto Gegè, classe 1918, nipote di Salvatore, famosissimo poeta napoletano.
Il Trio che si formerà per l’inaugurazione dello Shaker Club di Napoli rappresenterà il nocciolo delle future affermazioni di Carosone e toccherà l’apice del successo attraverso una di quelle rare alchimie artistiche che, ogni tanto, si verificano in ogni ambito delle espressioni umane.

Peter Van Wood
Peter Van Wood

Come Carosone era divenuto nel tempo un pianista capace di notevoli virtuosismi; anche Van Wood era un chitarrista capace di virtuosismi all’epoca non comuni e probabilmente fu uno dei primi in assoluto a introdurre l’uso delle pedaliere per chitarra con effetti elettronici. «Peter» – racconta nella sua biografia lo stesso Carosone – «era piacente, biondo, aveva un’aria stravagante e cantava in italiano, spagnolo, francese e inglese…».  La sua presenza nel gruppo diede luogo a una forma di “globalizzazione” grazie alla quale la napoletanità di Carosone ebbe un sorprendente successo anche in Olanda, negli altri paesi bassi e in molti altri paesi europei.

Gegè Di Giacomo
Gegè Di Giacomo

Gegè di Giacomo, più che un semplice batterista, era un fantasista delle percussioni. Un aneddoto narra che si presentò al provino di Carosone e Van Wood all’Hotel Miramare di Napoli senza la batteria e che avesse dimostrato il suo talento suonando con le sole bacchette su qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro, i tavolini, dei bicchieri parzialmente riempiti in modo da ricavarne tonalità diverse, le gambe delle sedie e quant’altro. Da questa prestazione fantasiosa e spiritosa Carosone capì subito di aver incontrato “il personaggio” singolare di cui aveva bisogno, che sarebbe diventato quel preziosissimo collaboratore e braccio destro a cui non avrebbe potuto rinunciare. «Gegè tu servi a me e io servo a te…» – si dicevano l’un l’altro – «…Senza di te io non posso fare niente e tu non puoi fare niente senza me…»

Alcuni anni dopo Van Wood lasciò il gruppo e partì verso l’America per cercare nuovi stimoli per la propria carriera. Il gruppo di Carosone si allargò con l’alternarsi di diversi nuovi elementi tra cui vale la pena di ricordare, nel 1953, nientemeno che il chitarrista jazz Franco Cerri (!); successivamente svariati musicisti, sempre valentissimi, si alternarono in varie formazioni.

Diversi furono i primati di Renato Carosone e i suoi compagni in quegli anni; era il dopoguerra, la gente aveva voglia di dimenticare le tragedie del passato e di ricostruire un presente e un futuro aspirando al benessere e desiderava trascorrere qualche attimo di spensieratezza.
Con il loro ottimismo e la loro fantasia artistica Renato e i suoi musicisti furono capaci di un primo e inedito esperimento di “fusion”, la melodia classica napoletana – non dimentichiamo che, a quell’epoca, “Canzone Napoletana” era sinonimo di “Canzone Italiana” –  con tutto il bagaglio di esperienze acquisite negli anni dell’immediato dopoguerra, dalle influenze etniche “africane” ai ritmi importati dalle Americhe, lo swing, il boogie, il blues, la rumba e il cha cha cha.
Secondo il noto attore e regista americano John Turturro, da sempre innamorato di Napoli e di tutto quanto la riguarda, in particolare dal punto di vista artistico, Carosone è stato il primo “rapper” in assoluto. Difficile dargli torto.
Furono comunque queste le chiavi del successo e delle innovazioni introdott dall’originalità della ricetta di Carosone & Gegè, condita sapientemente da un pizzico di ironia, scanzonata e talvolta irriverente, sempre associata a quel particolare sorriso ammiccante a cui nessuno avrebbe saputo o potuto rimproverare nulla.
Quello stesso sorriso scanzonato, a cui sempre tutto è permesso, ancora oggi lo possiamo ritrovare sulle labbra di due suoi affezionatissimi seguaci, Renzo Arbore e Rosario Fiorello.
Il pubblico veniva “caricato” al massimo dal “grido di battaglia” di Gegè “CantaNapoli…” e partecipava attivamente al concerto che si presentava, nel suo complesso, come uno spettacolo completo.
Pare infatti che una sera a Milano, durante un concerto al Caprice, mentre lavoravano come sempre abilmente al coinvolgimento del pubblico presente, durante l’introduzione del brano La Pansè, Gegè abbia improvvisamente gridato: “Canta Napoli… Napoli in fiore…”.
Da quel momento anticipava ogni brano, bollandolo con un riferimento al senso della canzone: “…Napoli matrimoniale…” per T’è Piaciuta, “…Napoli in farmacia…” per Pigliate ‘Na Pastiglia, “…Napoli petrolifera…” per Caravan Petrol, e così via. Gegè era un vero e proprio “personaggio” più che singolare.
Non sarebbe da escludere che il grande Totò che, negli stessi anni, rivestì per il cinema leggero e di intrattenimento lo stesso ruolo ricostruttivo e rivoluzionario che Carosone e i suoi ebbero nella musica, si sia talvolta ispirato a Gegè nella creazione di qualche suo personaggio esilarante.

Si dovrà attendere, negli anni settanta, la “Neapolitan Power” di James Senese, di Tullio De Piscopo, e subito dopo di Pino Daniele, che è stato considerato una sorta di “erede” naturale del suo spirito innovativo, di Tony Esposito, di Joe Amoruso e Rino Zurzolo, per assistere a un rimescolamento altrettanto rivoluzionario della musica napoletana, con echi e ripercussioni altrettanto incisivi e riconosciuti in tutto il mondo.

Ma tornando all’effetto “novità” del fenomeno Carosone, inquadrato nel contesto di rinascita culturale di quegli anni, proprio il suo gruppo fu protagonista di una serie di primati a testimonianza di tutto il prestigio e il gradimento che era riuscito a conquistarsi in ambito artistico.
Fu il primo ad apparire, il 3 gennaio 1954, a poche ore dai primi vagiti della nascente Rai – Radio Televisione Italiana, in una trasmissione intitolata L’orchestra delle quindici.
Fu il primo dei musicisti “leggeri”, dopo una lunga tournée in Europa, a Cuba e in Brasile, ad essere invitato alla Carnegie Hall di New York dove, mai prima di loro, si erano esibiti soltanto musicisti classici; nel 1960 furono invitati in America al prestigioso Ed Sullivan Show e furono il terzo gruppo italiano ad esibirsi alla TV americana dopo Nilla Pizzi e Domenico Modugno.
Nel 1975 Carosone prenderà parte a L’Ospite delle Due, il primo talk-show della televisione italiana ideato e condotto da Luciano Rispoli, in cui  spiegherà i motivi del suo inatteso ritiro dalle scene, di cui diremo dopo.

Tra il 1954 e il 1958 furono incisi i Carosello Carosone, un serie di 7 dischi che raccoglievano tutti i maggiori successi che, prima il Trio e poi il Sestetto di Carosone, avevano collezionato in quegli anni, tra composizioni originali e rivisitazioni di brani già noti.
Tra le composizioni originali ricordiamo Maruzzella, La Pansè, T’è Piaciuta, ‘O Russo E ‘A Rossa, e Pianofortissimo, che metteva in chiara evidenza tutto il virtuosismo pianistico dovuto alla formazione classica di Renato.
Menzione a parte merita Tu Vuò Fà L’Americano, uno dei successi più conosciuti, nato dall’incontro casuale con il poeta Nicola Salerno, in arte Nisa, alla casa discografica Ricordi di cui fu tramite il discografico Mariano Rapetti, padre di quel Giulio divenuto poi famoso come Mogol. Salerno divenne un collaboratore assiduo e un altro degli elementi fondamentali del successo di Carosone. Del duo Nisa-Carosone Pigliate ‘Na Pastiglia e, nel 1957, Torero, che fu  tradotta in diverse lingue e rimase per alcune settimane ai primi posti delle classifiche americane.

Tra le rivisitazioni ebbero grande successo Malafemmena, del grande Antonio De Curtis in arte Totò, Scapricciatiello, Anema e Core, La Donna Riccia di Domenico Modugno, ‘E Spingole Frangese, scritta da Salvatore Di Giacomo, Lazzarella e Io, Mammeta e Tu di Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno, magistralmente interpretata da Gegè Di Giacomo, Piccolissima serenata, ‘A sunnambula, ‘A casciaforte.

A cavallo tra i brani originali e quelli rivisitati ci furono poi delle composizioni “ispirate”, come  Giuvanne Cu’ ‘A Chitarra, che altro non era che una scrittura, in chiave ironica e in dialetto napoletano, di una canzone ispirara a Johnny Guitar, successo d’oltreoceano. E ancora, a proposito della sua graffiante  ironia, stravolse con il suo stile irriverente, E La Barca Tornò Sola, una canzone tristissima e struggente portata al successo a Sanremo da Gino Latilla, trasformandola, con la complicità dell’insostituibile Gegè Di Giacomo, in una irresistibile canzone comica. Anche Charlie Chaplin entrò nel mirino degli stravolgimenti di Carosone con un brano ispirato alla colonna sonora di Luci della ribalta che intitolò Eternamente, altrimenti conosciuto come Arlecchinata.

A un certo punto però, dopo aver creato una casa discografica con annesso un proprio studio di registrazione a Milano ed aver raggiunto l’apice del successo, avvenne un fatto inatteso: alla fine del 1959 Carosone annunciò pubblicamente la sua decisione di ritirarsi dalle scene. Completò i suoi impegni, fin verso la metà del 1960, e poi si ritirò con la moglie nei pressi di Bergamo dove fondò una piccola casa discografica, ma non smise di comporre canzoni con Nisa e si dedicò alla pittura, che era un’altra delle sue passioni.

Il suo affezionatissimo pubblico rimase profondamente dispiaciuto e deluso da questa decisione e dovettero passare ben quindici anni prima che Renato cedesse all’invito di Sergio Bernardini accettando una serata tutta dedicata a lui alla Bussola, con un’orchestra di diciannove musicisti, riprese televisive della Rai e registrazione in contemporanea di un nuovo disco “live”.

Nel corso della sua partecipazione a L’Ospite Delle Due, di Luciano Rispoli, Carosone spiegherà poi che, durante la sua permanenza in America alla fine degli anni ‘50, osservando l’andamento del mercato musicale, dei gusti del pubblico e l’anteprima della moda degli urlatori, aveva presagito come queste novità si sarebbero presto affermate anche in Italia. Avendo quindi lui già raggiunto l’apice del successo, prima di avviarsi sulla via del declino a causa del mutamento dei gusti e delle attenzioni del pubblico, gli era sembrato più dignitoso e appagante chiudere in bellezza abbandonando volontariamente le scene.

Ma il suo ritorno dimostrava la permanenza di uno zoccolo duro di ammiratori che, dopo essere rimasti orfani per anni della sua presenza, del suo stile e del suo humor, continuavano a seguirlo e a stimarlo.
Ci furono per Renato, seppure in tono minore rispetto agli anni d’oro, nuove canzoni, nuovi dischi, nuove tournée in Italia, in America, al Madison Square Garden di New York con il patrocinio di Adriano Aragozzini, in Sudamerica, in Canada, dove fu ospite dell’Orchestra Filarmonica di Toronto, una serie di ospitate, partecipazioni e collaborazioni in diverse trasmissioni televisive e una partecipazione nel 1989 al Festival di Sanremo con una canzone scritta per lui da Claudio Mattone, ‘Na Canzuncella Doce Doce.

Seguirono una mostra della sua pittura e, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, uno spettacolo in suo omaggio al Teatro Mercadante di Napoli, a cui Carosone partecipò attivamente dopo essersi ripreso da un lungo periodo di malattia dovuto ad un aneurisma celebrale. Ospite della serata arrivò  direttamente dall’America, a suonare con Carosone ‘O Sole Mio e Tea For Two, nientemeno che il vibrafonista Lionel Hampton, anch’egli ormai ottantaseienne.

Nel 1996 Carosone ricevette il Premio Tenco quale riconoscimento per l’innovazione portata, grazie alla sua produzione musicale, alla canzone napoletana, e tenne un ultimo concerto pubblico a Piazza del Plebiscito, a Napoli, nel 1998.

Scrisse poi, assieme al giornalista Federico Vacalebre, Un Americano a Napoli, la propria autobiografia che pubblicò nel 2000.

Colpito da enfisema polmonare, il 20 maggio 2001, nella sua casa di Roma, Renato Carosone morì nel sonno, lasciando un grande vuoto ma, al tempo stesso, un segno indelebile nel panorama artistico della fine del ‘900, con la sua musica che riesce a mantenere la sua attualità pressoché intatta.

Per il lungo sodalizio artistico e per il profondo legame di amicizia che legò Carosone a Gegè Di Giacomo, protagonista a pari merito di tutti i successi degli anno d’oro, è d’obbligo ricordare che quest’ultimo, costretto su una sedia a rotelle, a causa del suo stato di salute precario, e colpito da profonda depressione, sebbene profondamente addolorato per la scomparsa di Renato, non poté partecipare ai funerali.
Gegè ricevette nel 2003 dalla Regione Campania il Premio Carosone e rimase a vivere nella sua modesta casa di via Poggioreale a Napoli fino alla sua morte, avvenuta l’1 aprile 2005, a ottantasette anni.

(Ph courtesy of Augusto De Luca)

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GRETA ZUCCOLI | Dai concerti del liceo all’Ariston di Sanremo https://www.soundcontest.com/greta-zuccoli-dai-concerti-del-liceo-allariston-di-sanremo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=greta-zuccoli-dai-concerti-del-liceo-allariston-di-sanremo Thu, 04 Mar 2021 08:12:24 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=48640 Figlia del Vesuvio, ispirata dall’energia magmatica che scorre nelle sue vene, ventunenne napoletana verace follemente innamorata del centro storico partenopeo, luogo nel quale trascorre la maggior parte del suo tempo. Lei è Greta Zuccoli, raffinata cantautrice che scopre l’amore per la musica, in particolar modo per il canto, all’età di tredici anni. Inizia a frequentare […]

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Figlia del Vesuvio, ispirata dall’energia magmatica che scorre nelle sue vene, ventunenne napoletana verace follemente innamorata del centro storico partenopeo, luogo nel quale trascorre la maggior parte del suo tempo. Lei è Greta Zuccoli, raffinata cantautrice che scopre l’amore per la musica, in particolar modo per il canto, all’età di tredici anni. Inizia a frequentare le lezioni di canto per conoscere e approfondire il suo mezzo vocale. La riservatezza e la timidezza, due tratti distintivi del suo carattere, svaniscono come per magia quando si immerge anima e corpo nella musica. Indissolubilmente legata, su tutti, all’immenso Pino Daniele, le sue prime performance pubbliche risalgono ai tempi del liceo, quando si esibisce per i concerti di Natale, ma poi il suo fulgido talento le permette di crescere professionalmente. Inizialmente dà vita a Greta & The Wheels, band partenopea di cui è fondatrice, successivamente (quasi per caso) è scoperta da Damien Rice durante un concerto del cantautore irlandese. Profondamente colpito da Greta, i due duettano all’ “Olympia” di Parigi e per tutta la durata del tour estivo in barca a vela: il “Wood Water Wind Tour”. L’artista napoletana prende parte al film “Il Ladro di Giorni” di Guido Lombardi, con Riccardo Scamarcio, cantando dal vivo il brano Un’altra vita o ieri, in una scena dove compare insieme ai protagonisti e, inoltre, la sua voce (ri)torna in Stolen Days, che accompagna i titoli di coda del film. Sempre in veste di cantante, collabora anche al progetto di Amnesty International “Eleanor’s Dream”, in cui è ospite di vari eventi in tutta Europa. Nell’estate del 2020 partecipa al tour di Diodato, dal titolo “Concerti di un’altra estate”, come membro della sua band.

ph Luisa Carcavale (Studio)

Nel 2021, invece, ecco il coronamento di un sogno: Greta Zuccoli approda al teatro “Ariston” di Sanremo nella categoria “Nuove Proposte” presentando Ogni cosa sa di te, canzone della quale è autrice di testo e musica. Questo brano rappresenta per lei una sorta di riappacificazione con tanti stati d’animo contrastanti, il cui intento è quello di fondere le diverse sfumature di se stessa tracciando una linea di confine, per poi cancellarla e provare a superare tutti i suoi limiti, attuando una vera e propria rivoluzione interiore. Di rosso passione vestita, Greta Zuccoli percorre la scalinata dell’ “Ariston”, visibilmente (e giustamente!) emozionata. Interpreta la sua Ogni cosa sa di te con eleganza, con il suo timbro vellutato e carezzevole, intriso di intensa comunicatività, un brano dal testo profondo, pregno di significato e dalla melodia pervasiva. Però, purtroppo, televoto, giuria demoscopica e sala stampa non premiano l’artista partenopea, che è costretta ad abbandonare anzitempo la gara.

Eliminazione immeritata, ingiusta quella della talentuosa Greta, probabilmente perché una canzone così è fin troppo raffinata per far breccia nel cuore dell’ascoltatore medio, che oggi si lascia ammaliare da ciò che l’esasperata e (a volte) stucchevole modernità propone. Ad ogni modo, Greta Zuccoli esce di scena a testa alta, altissima, poiché ha calcato il palco più prestigioso d’Italia dimostrando il suo indiscutibile valore a tutti coloro che amano la buona e vera musica, partendo dai banchi di scuola. Il rammarico c’è, senza dubbio, ma solo passeggero, perché la cantante campana ha davanti a sé la strada spianata verso il successo. Del resto, un suo illustre predecessore, un certo Vasco Rossi, si piazzò al penultimo posto con Vita Spericolata al Festival di Sanremo del 1983. Poi, in realtà, anche le pietre sanno com’è andata a finire.

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