Interviste Archivi - Sound Contest https://www.soundcontest.com/category/interviste/ Musica e altri linguaggi Wed, 10 Apr 2024 17:08:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 VITO SCHIUMA | Un piano solo ispirato a Bukowski https://www.soundcontest.com/vito-schiuma-un-piano-solo-ispirato-a-bukowski/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=vito-schiuma-un-piano-solo-ispirato-a-bukowski Wed, 10 Apr 2024 17:08:28 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=64684 Dinamiche che da un notturno non mi aspetterei. E poi quella contemplazione che invece sa bene regalarmi il senso di un’attesa. “Blue Bird” è il nuovo disco in piano solo di Vito Schiuma, lui che all’America ha chiesto i natali del suo sentire e del suo modo di concepire il suono. Ed ecco che all’America […]

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Dinamiche che da un notturno non mi aspetterei. E poi quella contemplazione che invece sa bene regalarmi il senso di un’attesa. “Blue Bird” è il nuovo disco in piano solo di Vito Schiuma, lui che all’America ha chiesto i natali del suo sentire e del suo modo di concepire il suono. Ed ecco che all’America di Charles Bukowski chiede ancora un dono di ispirazione cercando anche di restituire al piano solo anche quella “sporcizia” di vita consumata. E, se posso avventurarmi, con entusiasmo direi che tutto questo ha il dono della sintesi della complessità che abbiamo ogni giorno nel vivere la vita comune…

 

 

C’è tantissima variazione dentro, anche nei respiri più sospesi. Come se dentro cercassi qualcosa… come se il vero obiettivo è cercare e non trovare… che mi dici?

Hai colto nel segno. La musica è l’arte meno palpabile, in connessione direttamente con il nostro inconscio. Trovare equivarrebbe a sedersi su una zattera, non vi sarebbe alcuna certezza. In questo lavoro ho voluto più semplicemente fotografare un periodo compositivo, un po’ come quei selfie che si fanno quando siamo soli e senza un vero motivo. La ragione, in “Blue Bird”, è molto chiara: nessuna composizione merita di essere soffocata proprio perché diretta espressione di quello che viviamo al momento o che pensiamo di vivere.

 

L’improvvisazione? Che ruolo ha avuto?

L’improvvisazione è una tecnica compositiva come altre, in questo caso il ruolo sembra marginale perché limitato a due brani (First Love e Go All the Way), ma nel bilancio complessivo l’importanza è stata elevata. Sapere di poter ricorrere ad un mezzo espressivo estemporaneo libera dalle costrizioni delle note sul pentagramma. Permette, come dicevamo prima, di inseguire un respiro, di rivisitare luoghi con occhi diversi. La parola improvvisazione in italiano ha due accezioni, come nell’animo di questo paese, una negativa e un sinonimo di capacità creativa. Quando si incide un disco l’improvvisazione è meno legata al luogo in cui essa si ingenera e ha un potere più rievocativo. Inoltre, osservando la sequenza dei brani, è chiaro che la presenza imponente di parti improvvisative nell’ultimo brano è una chiara indicazione di quello che sarà.

 

Quanto e in che modo tutto questo si lega all’America dei tuoi esordi?

L’America ancora oggi ha un modo diverso di guardare alla realtà, meno legato al passato, meno incentrato sul formalismo e l’accademismo. Scoprire che è possibile suonare uno strumento di matrice classica con meno attaccamento ai grandi del passato, ma una maggiore focalizzazione verso il sentire ha avuto un impatto notevole su quello che io abbia pensato di poter realizzare nella musica. Lo stesso Bukowski era uno scrittore non interessato al sofismo, alle parole vacue. Oltre a tutto questo, nell’America di quindici anni fa ho imparato che i generi musicali non esistono più e soprattutto che al pubblico non interessano le categorie, tutto ciò mi ha spinto a pubblicare queste composizioni che altrimenti sarebbero rimaste nel cassetto. A livello puramente musicale, l’obiettivo unico e dichiarato di questo EP è suscitare emozioni spostando suoni e silenzi nella testa dell’ascoltatore: un obiettivo tanto ambizioso quanto naïve. Più americano di così!

 

 

E dall’Italia e dal modo di pensare al suono, che cosa hai preso?

L’Italia ha un enorme patrimonio musicale da cui ho provato e provo a prendere più che posso. Non solo nel passato, ma ancora oggi, nella musica contemporanea, l’Italia esprime idee che la distinguono dal resto del mondo, sebbene l’impatto commerciale non sia più quello di un tempo per ovvie ragioni. Al mio Maestro Gianvincenzo Cresta devo tutta la mia concezione di come occupare con i suoni spazio e tempo, dimensioni irripetibili e impalpabili che non devono essere sprecate.

 

E se ti dicessi che in fondo questo è un disco di jazz?

Lo prenderei come un complimento. Vorrebbe dire che nel tentativo di fare altro sono riuscito comunque a far emergere tratti della mia esperienza nella musica improvvisata. Non è la prima volta che mi si fa notare quanto da mie composizioni “scritte” emergano inevitabilmente topoi di natura jazzistica. Io non mi considero propriamente un musicista jazz, ma del resto il jazz questo è: il più grande esempio di commistione musicale di almeno tre continenti. Il musicologo Renzo Cresti mi fece notare quanto le armonie americane fossero irrimediabilmente entrate nel mio linguaggio compositivo e certo non sono il primo a farlo.

 

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ALDO FARIAS | Sei corde tra tradizione e modernità https://www.soundcontest.com/aldo-farias-sei-corde-per-tenere-insieme-epoche-e-luoghi-diversi/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=aldo-farias-sei-corde-per-tenere-insieme-epoche-e-luoghi-diversi Sat, 23 Mar 2024 16:01:56 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=64495 La musica del chitarrista napoletano Aldo Farias rappresenta il baricentro perfetto tra differenti tradizioni, punto d’incontro ideale tra musica nord europea, sonorità del bacino del mediterraneo e tradizione afro-americana d’oltreoceano. Approccio jazzistico e gusto melodico concorrono ad esaltare la cantabilità tipica della nostra storia musicale. Un lirismo che sa essere solare o intimista, comunque sempre […]

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La musica del chitarrista napoletano Aldo Farias rappresenta il baricentro perfetto tra differenti tradizioni, punto d’incontro ideale tra musica nord europea, sonorità del bacino del mediterraneo e tradizione afro-americana d’oltreoceano. Approccio jazzistico e gusto melodico concorrono ad esaltare la cantabilità tipica della nostra storia musicale. Un lirismo che sa essere solare o intimista, comunque sempre capace di esprimere ogni tipo di sentimento e emozione. Quella del chitarrista partenopeo è una ricerca continua, evidente in ogni nuova proposta discografica delle tante prodotte nel corso della sua lunga carriera.

 

Jazz mediterraneo, oltre a richiamare uno dei tuoi primi dischi, continua ad essere, a 30 anni da quell’album (“Jazz Méditerranée”), un modo per definire la tua musica. Io penso che tu sia stato uno dei primi a Napoli e in Italia a manifestare una grande maturità e lungimiranza nel modo di intendere il jazz. Non tanto linguaggio da assecondare pedissequamente, quanto più “grammatica” da acquisire per esprimere il tuo mondo culturale e la tua storia musicale. Questo emerge non solo nella scelta dei musicisti, ma anche del repertorio.
Ho iniziato a suonare jazz ascoltando tutta la tradizione della musica afro-americana ed ho avuto il piacere di suonare con musicisti come Steve Grossman, Bob Berg, Richie Cole, Steve Turre, Mike Mainieri, Frank Lacy, Steve Slagle e tanti italiani come Franco Cerri, Gianni Basso, Massimo Urbani, Stefano Bollani, Fabrizio Bosso, Stefano Di Battista. Tutte personalità che hanno contribuito a sviluppare il jazz in Italia e all’estero. Contemporaneamente ho avuto un approccio con questa musica confrontandomi con le mie radici musicali, sia stilisticamente che nella composizione, portando avanti negli anni diversi progetti e pubblicazioni con un repertorio di brani originali che risentono di tutta la musica europea.

 

Scorrendo la tua discografia emergono chiari periodi ed esperienze. Raccontaci delle tue formazioni, dal quintetto “storico” con i sodali Franco De Crescenzo e Angelo Farias fino alla nascita dell’“esperimento” con gli altri tre gemelli di strumento.

Con Angelo e Franco ho condiviso per tanti anni, molti progetti musicali e discografici che hanno visto la partecipazione di Bob Berg, Ilir Bakiu, Roberto Gatto e tanti altri, con l’idea di cercare un’identità musicale tra le radici della musica afro-americana e la nostra tradizione.

Il progetto “Contemporary Jazz Guitar” con i miei colleghi Antonio Onorato e Pietro Condorelli, ai quali sono legato da una lunga amicizia, è stato molto interessante perché ci ha permesso di esplorare nuove sonorità lavorando su composizioni originali e interpretazioni di standards dando vita a due pubblicazioni discografiche per la Wide Sound e tanti concerti insieme ad uno dei più grandi chitarristi europei Franco Cerri.

 

Rispetto a quest’ultima formazione composta da sole chitarre, probabilmente l’essere portatori di stili differenti ha paradossalmente aiutato l’amalgama del gruppo. Ma immagino sia stato molto stimolante l’arrangiamento delle composizioni.

Sicuramente, l’aspetto interessante è stato proprio quello di scambiarci idee musicali e compositive confrontandoci anche con Franco Cerri che apparteneva ad un’altra generazione.

Aldo Farias con Franco Cerri

Arriviamo all’ultima pubblicazione. A dieci anni da “Different Ways” esce per la Skidoo Records “Open Quartet”. Ancora una nuova formazione, nata in seno al Conservatorio dove insegni. Quante cose sono cambiate in questi dieci anni?

Il disco “Open Quartet” nasce dalla profonda amicizia nata all’interno del Dipartimento di Musica Jazz del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino, dove tutti noi insegniamo, e dove parallelamente all’attività didattica abbiamo svolto tanta attività concertistica che ci ha permesso di sviluppare un’interessante affinità stilistica. Il disco è stato registrato interamente live in Auditorium del Conservatorio.

 

Come tua abitudine il disco contiene brani originali e classici arrangiati in maniera originale. Ci vuoi parlare delle composizioni? Beat 61 e One for Bud sono tue composizioni. Waltz for a poet di Mario Nappi sembra composta apposta per la tua chitarra.

Quasi tutte le mie pubblicazioni contengono sempre composizioni originali, per me l’aspetto compositivo è importante perché mi permette di dare un’identità personale alle composizioni che suono. Beat 61 e One For Bud sono due miei brani, il primo è un brano modale ispirato dalla musica di John Coltrane, suonato con un approccio ritmico moderno, mentre il secondo è un tributo ad uno dei più grandi pianisti e compositore del periodo be bop, Bud Powell. Waltz for a poet invece è un brano di Mario Nappi che dal primo momento che l’ho suonato mi ha ispirato per la sua naturalezza armonica e melodica.

Poi grandi classici come My Ideal o Here’s that rainy day in una versione davvero rivitalizzata dalla scelta di un “tempo dispari”.

Quando suono degli standards mi piace sempre caratterizzarli per dargli un’impronta personale, in questo caso su Here’s that rainy day, brano di Van Heusen che amo tanto, mi è venuta l’idea di cambiare il tempo trasformandolo in 5/4 in modo da avere soluzioni ritmiche improvvisative diverse, mentre a My Ideal, che nasce come ballad per la sua struttura armonica ricca di accordi di settima dominante, mi piaceva dargli un carattere blues.

 

Hai sempre affiancato all’attività concertistica quella didattica. Tanto è cambiato anche nei Conservatori rispetto all’insegnamento della musica jazz negli ultimi 30 anni. Dall’unico insegnante che doveva compiere l’impresa titanica in 12 ore settimanali di plasmare con il suo sapere nuove generazioni di jazzisti, all’ultima organizzazione in cui i diversi aspetti di questo genere vengono trattati separatamente da docenti dedicati. Insomma siamo finalmente arrivati a quello di cui parlavamo all’inizio? L’insegnamento del jazz o, meglio, lo studio del jazz, è finalmente visto come l’acquisizione di una “grammatica” universale per esprimere la contemporaneità?

Negli anni l’insegnamento del jazz nei conservatori ha avuto un’evoluzione continua, infatti nel tempo si sono consolidati dei Dipartimenti di Musica Jazz dove, oltre all’insegnamento del proprio strumento, si sono sviluppate discipline come Arrangiamento, Composizione, Video Scrittura, Musica d’insieme e tante altre che hanno permesso agli studenti di confrontarsi su più territori in modo da seguire le proprie inclinazioni e acquisire una preparazione più completa per quello che riguarda la grammatica del jazz. Io penso che il vero problema che oggi hanno gli studenti è che ci sono pochi spazi (sale da concerto, club, ecc.) dove praticare e fare esperienze in modo da costruirsi la propria carriera musicale. In altri paesi esiste una forte componente istituzionale sia per le orchestre di jazz che per gli spazi dedicati all’ attività concertistica.

 

Che mi dici, invece, dell’idea di gestire, insieme a tuoi esimi colleghi, un piccolo jazz club nel centro storico di Napoli? A chi è venuta l’idea e da quale esigenza nasce? E soprattutto, se è ancora viva, qual è la finalità?

Proprio in riferimento a quello che ti dicevo prima, negli anni abbiamo cercato presso le istituzioni della nostra città (Comune, Municipalità, ecc.) uno spazio per la nostra musica. Ad oggi non siamo riusciti ad avere risposte concrete, per cui autonomamente con l’associazione JAM (Jazz Music Art) ci siamo appoggiati a spazi esistenti come la cappella dei Musici, la Cappella Pappacoda e altri luoghi nel centro storico adatti a tenere concerti. Chiaramente noi speriamo anche per le nuove generazioni. Visto il forte interesse per i Dipartimenti di Jazz nei Conservatori della nostra Regione, speriamo ci possa essere uguale interesse per la realizzazione di spazi culturali per i futuri musicisti di jazz.

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MASSIMILIANO MARTELLI | Il suono pop della sua rivoluzione https://www.soundcontest.com/massimiliano-martelli-il-suono-pop-della-sua-rivoluzione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=massimiliano-martelli-il-suono-pop-della-sua-rivoluzione Sat, 23 Mar 2024 09:33:44 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=64519 Eh sì, il deciso scostamento dalla sua storia non è qualcosa che si nasconde dietro dettagli. In questo nuovo disco, Massimiliano Martelli parla di pop e di sonorità main stream, elettroniche e liquide, leggere di una quiete matura e credibile. “Quanto pesa la felicità” ci incuriosisce anche per i suoi aspetti di produzione di cui, […]

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Eh sì, il deciso scostamento dalla sua storia non è qualcosa che si nasconde dietro dettagli. In questo nuovo disco, Massimiliano Martelli parla di pop e di sonorità main stream, elettroniche e liquide, leggere di una quiete matura e credibile. “Quanto pesa la felicità” ci incuriosisce anche per i suoi aspetti di produzione di cui, come nostro solito, chiederemo conto per indagare da vicino l’anima di qualcosa che, soltanto all’apparenza, sembra davvero figlio di una massificazione espressiva. È la vita che, a forza di venir consumata, regala anche la saggezza di pesare di meno.

 

Parliamo di produzione. I suoni di questo disco virano molto verso una scena indi metropolitana… cosa ne dici?
Beh, sì, se cominciamo proprio col dire che sentivo io l’esigenza, il bisogno, di realizzare un disco che fosse caratterizzato da sonorità e soluzioni musicali diverse dai miei precedenti lavori, pur mantenendo la mia cifra stilistica e identità cantautoriale. E per arrivare a questo è stato fondamentale e prezioso il lavoro di produzione di Maurizio Mariani, con il quale ho cercato di coniugare da una parte il mondo acustico della chitarra e dall’altro il suono in parte digitale degli arrangiamenti e della forma canzone.

 

Come li hai scelti i suoni e in che direzione puntavi?

In parte come ho già risposto, c’era appunto un desiderio di cimentarmi con scelte, groove e sound “diversi ma non troppo” da quelli a cui ero abituato nel mio lavoro di autore e compositore. Sperimentare sonorità che in parte strizzassero l’occhio anche a richiami di una certa “new wave”. Ma non è stato questo solo un discorso di suono del disco, anzi. C’è stato anche da parte mia un importante lavoro “di sintesi” per i testi di ogni brano: una forma più asciutta e concisa rispetto ai testi abbastanza serrati che ero solito scrivere. Questo proprio per permettere all’ascoltatore di concentrarsi e “respirare” su ogni parola scritta e cantata.  Anche perché era una mia precisa intenzione nel disco quella di “non dimostrare” nulla o di lasciar “scoprire” tutto all’ascoltatore, lasciando un po’ come “sospesi” concetti e significati, tra un detto e un non detto, dare uno spunto per riflessioni e risposte a ognuno sulla base delle proprie esperienze di vita, associandone così un tempo, un peso ed uno spazio personali.

Alcuni suoni come dentro l’ultima traccia “Mezze verità e acqua tonica” li hai voluti distorti. Anche la tua voce: che racchiude questa scelta?

L’uso di suoni distorti e timbro di voce artefatto, quasi robotico, è nato per evidenziare che questo disco è comunque figlio di un tempo, il nostro, dove è sempre più difficile e complicata la comunicazione fra le persone. Io vengo da un passato lavorativo lungo oltre vent’anni svolto nel sociale, come assistente domiciliare, educatore e operatore sociosanitario al servizio di persone fragili in contesti difficili e scuole delle periferie della mia città, Roma. Quindi l’aspetto “umano” dei rapporti e sentimenti è stato sempre il focus, il cuore, il centro di ogni mio pensiero e azione, lavorativi e non… Ma in questi anni purtroppo ho visto sempre più assottigliarsi tempo e disponibilità al dialogo, all’incontro con l’altro, alla gestione dei conflitti, delle differenze e delle divisioni. E il tutto è cornice di questa difficoltà di vivere sempre di corsa per i tempi che detta questa società che non ammette errori e non di rado ci vuole vendere o trasmettere un’idea “vincente” di felicità legata più all’aspetto materiale del benessere, della realizzazione personale, dove si fatica sempre più ad ascoltare il proprio corpo che respira, il cuore che batte… Un po’ come dei robot.

Da qui, dunque, ho provato a “giocare” la carta di raccontare emozioni, sensazioni, sentimenti “umani” con suoni “non umani”.

 

E la chitarra acustica che campeggia in copertina?

Principalmente ci sono due motivazioni: la prima è una sorta di omaggio, ringraziamento, a questo strumento con il quale da adolescente ho iniziato ad approcciarmi alla musica “suonata. La seconda, più pertinente al disco, è quella che al di là delle scelte di composizione e arrangiamento presenti, arrivasse dritto il messaggio che già dalla copertina la chitarra acustica avrebbe comunque avuto un ruolo centrale nel suono complessivo delle canzoni, come riscontrabile già nell’ascolto di “Starò bene”, brano che apre il disco, dove un riff acustico ostinato fa da tappeto per buona parte della durata del pezzo.

 

Un Ep che apre le porte ad un disco di inediti

Sicuramente l’intenzione c’è da parte mia, ma intanto coi miei musicisti ci stiamo concentrando più sull’aspetto live, cercando di portare in giro e suonare il più possibile questo nuovo lavoro e parte del mio repertorio musicale meno recente.

 

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IL BARONE LAMBERTO | L’arte di sempre nel tempo nuovo https://www.soundcontest.com/il-barone-lamberto-larte-di-sempre-nel-tempo-nuovo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=il-barone-lamberto-larte-di-sempre-nel-tempo-nuovo Wed, 07 Feb 2024 10:28:50 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63840 Lo trovo coerente e intelligente quando ci rivela che in fondo bisogna accettarli e saperci star dentro a questi nuovi tempi che viviamo piuttosto che star lì a frenarne l’avanzata… se mi si concede la sintesi. Insomma, Il Barone Lamberto dimostra tutto questo con un disco ormai già “passato” come il suo ultimo lavoro dal […]

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Lo trovo coerente e intelligente quando ci rivela che in fondo bisogna accettarli e saperci star dentro a questi nuovi tempi che viviamo piuttosto che star lì a frenarne l’avanzata… se mi si concede la sintesi. Insomma, Il Barone Lamberto dimostra tutto questo con un disco ormai già “passato” come il suo ultimo lavoro dal titolo “Bravo” che non deve smettere di suonare: moderno e attuale per quanto siano classiche le forme di rap e le forme di pop. Ma il suono quello sì che smette di avere ancore e ragnatele, smette di essere dissacrante e non offende il futuro dall’alto di chissà quale vita… ma non rinnega il passato in nome di un cambiamento ancora di là da venire.

 

 

Noi parliamo molto di produzione e questo disco, come spesso capita nelle tue pubblicazioni, sfoggia una produzione davvero importante. Partiamo da qui: come ci hai lavorato?

Autonomamente, come faccio da anni ormai. Lo trovo molto più stimolante. In passato mi sono avvalso del lavoro di studi prestigiosi e in qualche caso anche di musicisti di livello.

Ora che le nuove tecnologie ci permettono di ottenere ottimi risultati nel campo delle autoproduzioni io ho trovato grande soddisfazione nel creare da zero le mie produzioni musicali.

Se mi manca uno strumento provo a replicarlo con uno virtual. Se voglio un giro di chitarra ne imbraccio una e faccio del mio meglio per tirare fuori qualcosa che mi soddisfi anziché chiedere l’aiuto di un chitarrista esperto. Questo è il mio modo di lavorare, chiaramente se cerco un particolare virtuosismo o un suono molto caratteristico cerco un collaboratore, ma in linea di massima le mie produzioni cominciano e finiscono con me davanti ad un computer, una tastiera e un microfono nella mia stanzetta.

Oggi la tecnologia viene in soccorso: per te è un plus o una forma di schiavitù? In fondo “Bravo” ricerca anche una verità “analogica” della vita… in “Zenith” lo dici chiaramente…

Forse a questa domanda ti ho già risposto, ma provo ad approfondire. Per me la tecnologia, in campo musicale e non, è assolutamente un plus ma solo se si parla di “aiuto”.

Trovo che abbia senso ricorrere ad essa quando stimola la creatività o quando velocizza dei passaggi obbligati che in passato richiedevano molto più tempo e molti più soldi. Un approccio analogico, secondo me, deve stare alla base di un utilizzo consapevole e profittevole della tecnologia.

 

 

Che poi la copertina è una vera e propria bandiera del passato… in antitesi col suono che è figlio dei tempi moderni. Come la leggiamo questa apparente contraddizione?

In realtà non è una contraddizione. Trovo che il passato, se lo si guarda con occhio clinico, celi il potenziale di quello che è il presente o che potrebbe essere il futuro.

Mi piace questa foto proprio perché sembra che sapessi già come sarei diventato in seguito. Sia umanamente che intellettualmente nonostante, all’epoca, fossi una persona molto diversa. Noi siamo il nostro passato ma anche il nostro futuro e a volte guardare vecchie foto può spiegarcelo meglio di qualsiasi seduta psicoterapeutica.

 

Dal vivo il suono di “Bravo” come viene codificato? Sei di quegli artisti che ricercano una dimensione quanto più coincidente col disco oppure sei ben aperto a variazioni sul tema?

Dipende molto dal pezzo e dal mio “mood”. Alcune volte preferisco restare fedele al materiale originale, altre volte stravolgerlo ma soprattutto, per quanto riguarda il live, mi fido

moltissimo del gusto e dell’intuito dei musicisti che suonano con me. Se è vero che nella produzione sono un self-made-man, è altrettanto vero che nel live mi affido completamente ai miei musicisti e collaboratori. Se loro ritengono che un brano suoni meglio in un modo piuttosto che un altro allora li assecondo volentieri. Considero il live come qualcosa che va parallelamente ad un album ma a differenza sua deve essere soggetto a continui cambiamenti. Infondo è proprio lì che c’è la “vita vera”!

 

Sempre più social e sempre più liquido e rapido il modo di ascoltare il suono. Allora chiedo: perché tanto sforzo nella produzione quando poi ascoltiamo la musica nei cellulari (se pure)?

Ti confido un piccolo segreto (di Pulcinella), uno degli ascolti fondamentali che faccio durante la fase produzione è proprio quello sullo smartphone. Ahimè, anch’io ascolto musica prevalentemente da cellulare. Negli anni ho potuto appurare che quando il pezzo suona bene lì, allora è molto probabile che suoni bene anche dentro un mega impianto. Dicendo questo so di attirarmi le ire e lo sdegno di tanti professionisti del suono che si sparerebbero un colpo in testa piuttosto che ascoltarsi “The Dark Side Of The Moon” da cellulare ma il mio primo e ultimo obiettivo è quello di arrivare alla gente, di comunicare. Se la maggior parte delle forme d’arte oggi passano per uno smartphone a me sta benissimo. Non per questo si può prescindere dal curare quei contenuti nei minimi dettagli, anzi bisogna porre ancor più attenzione.

Questa è la mia filosofia!

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CLASSICA ORCHESTRA AFROBEAT | Il jazz che fa il giro del mondo https://www.soundcontest.com/classica-orchestra-afrobeat-il-jazz-che-fa-il-giro-del-mondo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=classica-orchestra-afrobeat-il-jazz-che-fa-il-giro-del-mondo Sun, 21 Jan 2024 18:33:49 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63647 Un disco come “Circles” promette di tornare all’uomo e alla sua origine spirituale. Promette e ci riesce dentro i ricami di suoni acustici e ancestrali che arrivano spesso da zone del mondo lontane anni luce. Marco Zanotti e il suo collettivo apolide ha fatto un lavoro magistrale in questo disco che ospita anche la preziosa […]

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Un disco come “Circles” promette di tornare all’uomo e alla sua origine spirituale. Promette e ci riesce dentro i ricami di suoni acustici e ancestrali che arrivano spesso da zone del mondo lontane anni luce. Marco Zanotti e il suo collettivo apolide ha fatto un lavoro magistrale in questo disco che ospita anche la preziosa voce di Rokia Traoré, una delle più importanti artiste africane nel brano “Ka munu munu”. E poi strumenti antichi, tradizioni, scritture perdute nel tempo e nella distrazioni dell’industrializzazione potente… si torna anche alla ritualità, lo dicono le percussioni di Zanotti, lo dice una certa scrittura che al Jazz chiede moltissimo. “Circles” è un disco da esperire in silenzio…

 

Un disco che culla il concetto della diversità. Non solo altre culture ma anche altro modo di pensare al suono e alla forma. Che parte di mondo avete esplorato per questo lavoro?
Pur non essendo un lavoro specifico su una tradizione musicale o un’area geografica, ci sono alcuni riferimenti sonori e musicali più appariscenti. Ad esempio l’uso dei lamellofoni come la mbira e la sanza ci porta ad una musica circolare presente in varie tradizioni dell’Africa Centrale e Meridionale, soprattutto in Zimbabwe, da cui proviene l’unico brano dell’album non nostro. E poi ci sono i sabar degli Wolof del Senegal, qualche accenno alla musica copta etiope nel brano che parla del massacro di Debra Libanos, i gnawa del Marocco del sud, eccetera.

 

 

Registrazione e produzione? Avete usato tecniche e strumenti che arrivano da quelle culture?

In parte si, ad esempio le mbire e le sanze, per il resto la cifra stilistica della COA resta il suono dell’orchestra da camera, con archi, legni e con il clavicembalo che dà una connotazione barocca. Il più possibile registrati in ensemble, grazie alle maestria di Andrea Scardovi, deux ex machina di tutti i nostri lavori. Poi c’è un intruso: uno strumento elettroacustico creato da un artigiano sardo, Massimo Olla, che usiamo in vari brani di Circles, assemblato con molle e barre filettate. Tanto per restare in tema metallo e upcycle…

Il risultato lo trovo molto occidentalizzato se mi concedi il termine. La pasta sonora sembra accomodarsi nelle abitudini moderne. O sbaglio?

È sicuramente un ibrido, per certi versi è l’album meno “africano” che abbiamo registrato, ma attenzione a non cadere nella vecchia ed imperitura logica coloniale: l’Africa ha un movimento afrofuturista e d’avanguardia di tutto rispetto, da cui l’Occidente prende a piene mani. Che cosa resterebbe delle “abitudini occidentali moderne” se togliessimo l’influenza secolare dell’arte africana? Penso al jazz, al minimalismo, alla tecnho e alla trap.

Se è vero che il concetto di circolarità è universale e trasversale è altrettanto vero che in Africa resistono più che in altre parti del mondo quelle dinamiche circolari che si applicano sia alla musica che alla vita sociale o alla filosofia.

Dal 15 al 21 gennaio Marco Zanotti è anche ospite del programma radiofonico Trans Europe Express a cura di Paolo Tocco.

Eccovi la chiacchierata (solo voce) disponibile da oggi su Spotify

 

Il vinile invece? Che rapporto ha questa musica, la vostra musica con questo supporto?

Il vinile è tondo e gira! A parte le battute, io personalmente sono un vinilofilo da sempre soprattutto per un motivo: quando ascolti un LP ti prendi il tempo per farlo, c’è una sorta di rispetto verso quello che il vinile rappresenta, cioè la musica ed il lavoro che ci sta dietro. In antitesi alla musica da sottofondo, quella delle playlist di Spotify.

E poi anche Spotify e il futuro… anche questo passaggio non me lo sarei atteso…

In che senso? Intendi il fatto che i nostri album si trovano anche su Spotify? Lo so, è un argomento spigoloso ma considera che già è difficile farci notare, in un paese ai margini della world music e per di più senza finanziamenti nè sponsor. La distribuzione digitale non è quasi mai giusta nel riconoscere all’artista il suo lavoro ma ormai è indispensabile se non vuoi definitivamente sparire dai radar. In ogni caso, non siamo certo noi che foraggiamo quel sistema… Il futuro? E dove vogliamo guardare altrimenti? Chiediamolo ai ragazzi di oggi.

 

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FAT HONEY | E’ tutto “Grasso che cola” https://www.soundcontest.com/fat-honey-e-tutto-grasso-che-cola/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=fat-honey-e-tutto-grasso-che-cola Sat, 13 Jan 2024 11:35:28 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63531 Alla frontiera solo tanta gustosa e imprevedibile contaminazione. Il jazz incontra l’elettronica e assieme fanno bisboccia con quel modo trap e rap di pensare alla narrazione, tra sfoghi metropolitani e un sax che avvolge di eleganza e di trasgressione. Sono i Fat Honey e questo lavoro dal titolo “Grasso che cola” sfoggia un giallo acceso, […]

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Alla frontiera solo tanta gustosa e imprevedibile contaminazione. Il jazz incontra l’elettronica e assieme fanno bisboccia con quel modo trap e rap di pensare alla narrazione, tra sfoghi metropolitani e un sax che avvolge di eleganza e di trasgressione. Sono i Fat Honey e questo lavoro dal titolo “Grasso che cola” sfoggia un giallo acceso, tra la dolcezza del miele e le eccentriche trovate shocking già dall’immagine che ci regalano, figuriamoci nel suono. Adolescenti mai cresciuti o forse molto più che adulti nel saper prendere la vita con scanzonata leggerezza e ironia dissacrante alla base. Il tutto in un suono principalmente live che sembra essere una prosecuzione moderna di quel filone che il buon Davis aveva ampiamente sdoganato. Anche se, a detta loro, le radici sono altre…

 

 

Disco impegnativo, arrangiamenti davvero in bilico tra jazz e futuro. Quanto spazio ha l’improvvisazione?

Grazie! L’improvvisazione conta molto per quanto riguarda il sassofono e, in generale, la fase compositiva, poi tendiamo a strutturare il tutto. Abbiamo studiato il jazz, è la nostra formazione “scolastica”, almeno per qualcuno di noi, e ci piace lasciare un margine di imprevisto, di – appunto – improvvisazione in quello che facciamo.

E che tipo di jazz entra dentro questa produzione?

Quello più contaminato dal funk e dal soul, e quello che sta in un certo tipo di musica hip-hop. Parlando di “jazz” ci piace Chris Potter, Dave Holland, Thelonious Monk…

La voce è anche protagonista di un bel lavoro di mix o sbaglio? Perché questa dimensione “megafonica”?

È una scelta del sapiente Poddighe Studio, a cui ci siamo rivolti per questa prima nostra produzione.

E il funk anni ’80 ha anche un ruolo soprattutto nei suoni di basso o sbaglio?

Questo perché il funk scorre potente in Mr. B. Un riferimento, fra i tanti, è Bootsy e la P-Funk.

Il gioco nelle liriche, prendersi gioco del sistema, dei modi di dire… prendersi gioco è un punto centrale?

Se ci fossimo presi troppo sul serio non saremmo arrivati fino a qui. Scherzi a parte, Gnocchi e Teocoli.

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DONATO PITOIA | “Sud Experience” sinonimo di democrazia e libertà nel nome di Giustino Fortunato https://www.soundcontest.com/donato-pitoia-sud-experience-sinonimo-di-democrazia-e-liberta-nel-nome-di-giustino-fortunato/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=donato-pitoia-sud-experience-sinonimo-di-democrazia-e-liberta-nel-nome-di-giustino-fortunato Tue, 19 Dec 2023 11:19:49 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63256 Chitarrista e compositore ardimentoso, sempre mosso da una viva curiosità artistica, Donato Pitoia è un musicista dal fulgido talento. Grazie alle sue spiccate doti si esibisce non solo in tutta Italia, ma anche all’estero in Paesi come Polonia, Spagna, Marocco, Francia. La sua fertile vena compositiva lo vede protagonista in qualità di autore di importanti […]

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Chitarrista e compositore ardimentoso, sempre mosso da una viva curiosità artistica, Donato Pitoia è un musicista dal fulgido talento. Grazie alle sue spiccate doti si esibisce non solo in tutta Italia, ma anche all’estero in Paesi come Polonia, Spagna, Marocco, Francia. La sua fertile vena compositiva lo vede protagonista in qualità di autore di importanti colonne sonore, come quella del pluripremiato cortometraggio “Bellafronte” di Andrea Valentino e Rosario D’Angelo. Particolarmente attivo e apprezzato anche in veste di didatta, è impegnato nel ruolo di direttore artistico di prestigiosi festival come “Different Train” e Sud Experience – Festival delle Arti, giunto alla seconda edizione. Proprio questa rassegna a ingresso gratuito, patrocinata dall’Amministrazione Comunale di Rionero in Vulture (provincia di Potenza) e organizzata dal centro culturale Visioni Urbane di cui lui è presidente del comitato di gestione, inizierà il 27 dicembre per terminare il 30 dicembre. Sud Experience è un ricco contenitore culturale, festival dedicato a uno fra i più grandi esponenti del Meridionalismo come Giustino Fortunato, concepito nel segno della letteratura, storia, politica, fotografia e musica, dove il tema sempre attuale e delicato dell’immigrazione è posto al centro di questo evento.

 

“Sud Experience – Festival delle Arti” è giunto alla seconda edizione. Quali sono le sostanziali analogie e quali le differenze rispetto alla prima edizione?

“Sud Experience” è un festival delle arti dedicato alla figura di Giustino Fortunato, patrocinato dal Comune di Rionero in Vulture e ospitato da Visioni Urbane, uno dei più attivi centri culturali della zona. Tutto questo rimane una costante, come pure analoga è la struttura del festival, pensata per esprimere il tema al centro della rassegna attraverso le arti: dalla musica alla letteratura, dalla storia alla fotografia. Ovviamente ogni edizione ruota attorno ad un topic differente. In quella precedente è stato scelto “Il Sud del Mondo” per valorizzare e rielaborare proprio il concetto di Sud nella sua più ampia accezione. Per farlo si è  deciso di coinvolgere i ragazzi delle scuole e in  particolare dell’istituto “I.I.S. Giustino Fortunato” di Rionero che, nei mesi precedenti al festival, hanno  partecipato a laboratori di fotografia, scrittura creativa e musica, durante cui sono stati aiutati da validi docenti che hanno valorizzato la loro creatività e potenzialità guidandoli nella produzione, rispettivamente, di una mostra fotografica, di testi rielaborati e prodotti in forma di podcast e di un’esibizione in concerto. Per la parte musicale del festival, invece, si è scelto di coinvolgere gruppi indie- pop – rock della scena romana. In questa edizione l’attenzione è stata focalizzata sul tema dell’immigrazione mirando ad esaltare gli aspetti positivi del fenomeno sempre attraverso le arti. In particolare, questa vedrà protagoniste “Rotte. Migranti fra  Terra e Mare”, una mostra fotografica a cura di  Michele Amoruso, Giuseppe Carotenuto, Alessio Paduano e  Roberto Salomone,  “Politica e Società – Storie di Immigrazione”, una parte prettamente letteraria, in cui Piero Di Sena dialogherà con Alessandro Agosta (Università della Tuscia) e Giovanni Ferrarese (ISMed CNR e Università di Salerno), mentre Mimmo Lucano (ex sindaco di Riace, ndr) argomenterà con Nancy Porsia (giornalista e producer) e Donato Di Sanzo (ISMed CNR), moderati da Antonella Gravinese, oltre ai concerti per la  parte musicale. Proprio per quanto riguarda l’aspetto musicale sono stati coinvolti artisti che si distinguono sulla scena internazionale: Achille Succi, Daniele D’Alessandro, Dudu Kouatè, Ashti Adbo, Angelo Manicone, Domenico Saccente, Nico Andrulli, Francesco D’Alessandro ed io. Si sono aperte le porte di “Visioni Urbane” per ospitarli e organizzare una residenza artistica che dà agli artisti la possibilità di unire le forze e le idee, di immergersi totalmente nella ricerca e nella produzione, rimanendo a stretto contatto, sperimentando fianco a fianco, contaminandosi e dedicandosi completamente alla creazione artistica.  Anche durante le sessioni di registrazione, finalizzate alla produzione di un disco, saranno aperte al pubblico le porte della residenza, che culminerà nei concerti e nelle live performance finali, previste nelle serate del 29 e del 30 dicembre.

L’obiettivo principale della rassegna è quello di valorizzare letteratura, storia, politica, fotografia e musica e di divulgare un messaggio d’inclusione sociale?

Assolutamente sì.  Il festival vuole anche far passare un messaggio diverso, lontano dalla comune propaganda: l’arte, il dialogo, la musica e l’improvvisazione sono esempi tangibili di democrazia e libertà. Permettono concretamente di vedere e sentire realizzato ciò che nella società sembra essere ancora oggi un’utopia: collaborazione, uguaglianza, possibilità di esprimere democraticamente e liberamente le proprie idee, al di là di ogni confine. Inoltre, si propone di evidenziare quanto siano fondamentali l’apertura, lo scambio e la contaminazione per la crescita              e lo sviluppo di ogni comunità.

Venendo alla musica, cuore pulsante dell’evento, tu sarai protagonista insieme ad altri otto straordinari musicisti da te già citati: Ashti Adbo (voce, fiati e strumenti a corde), Dudu Kouatè (voce e percussioni), Achille Succi (clarinetto e sax), Angelo Manicone (sax e fiati), Daniele D’Alessandro (clarinetto e tastiere), Domenico ​ Saccente (fisarmonica e pianoforte), Nico Andrulli (basso) e Francesco D’Alessandro (batteria), ossia l’Orchestra delle Radici. Qual è il mood e quale la cifra stilistica di questa formazione?

L’obiettivo è quello di creare un viaggio sonoro attraverso varie culture musicali del mondo. Perciò la scelta è ricaduta su artisti che, oltre a essere grandissimi compositori ed improvvisatori, sono anche rappresentativi di diverse culture e generi. L’idea è quella di creare un’orchestra che, prendendo spunto dalle musiche del mondo, possa rinnovarle e accrescerle con ispirazioni ed intuizioni improvvisative.

Fra i tanti ospiti spicca la presenza di Mimmo Lucano, noto attivista, politico ed ex sindaco di Riace. La sua partecipazione rappresenta un valore aggiunto per l’intero festival?

Certo, soprattutto per il suo approccio nella gestione di rifugiati politici e immigrati nel contesto della delicata crisi europea dei migranti.

La rassegna sarà a ingresso gratuito. Questa decisione di offrire gratuitamente a tutti quattro giornate all’insegna della cultura a 360 gradi nasce da una particolare esigenza?

Sì, la decisione di offrire gratuitamente tutto ciò che il festival comprende nasce dall’esigenza di informare i cittadini non attraverso nozioni, testate giornalistiche o slogan politici, ma tramite la partecipazione diretta e l’esperienza dal vivo, con noi, nel festival. È un’opportunità per cogliere, toccando con mano, l’importanza di multiculturalità e apertura e di vederne concretamente alcuni vantaggi, di sviluppare un’opinione critica che non sia veicolata da mass media e politica.

Soprattutto dal punto di vista della risposta del pubblico, quali sono le tue aspettative per questa edizione?

Spero che il pubblico possa rispondere positivamente, visto la qualità degli ospiti presenti.  Dietro al progetto del festival c’è tanto lavoro, tanta cura, impegno e attenzione alla qualità che spero possano essere riconosciute e sostenute, così come l’accoglienza e la programmazione che noi del centro culturale “Visioni Urbane” di Rionero siamo soliti offrire. È una grande possibilità, soprattutto in un contesto come quello del Vulture, difficile da connettere con realtà internazionali. Per cui mi auguro che il pubblico e la comunità vogliano approfittarne.

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BEPPE CUNICO | Il nuovo disco è “From Now On” https://www.soundcontest.com/beppe-cunico-il-nuovo-disco-e-from-now-on/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=beppe-cunico-il-nuovo-disco-e-from-now-on Tue, 19 Dec 2023 11:00:32 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63251 Decisamente un ritorno in scena che in qualche modo sa incuriosire sin dalle prime battute, sin dai primi video rilasciati in rete ad anticipare tutto il lavoro. Che poi lo conosciamo bene Beppe Cunico, conosciamo questo mondo che dal progressive al pop abbraccia un bel ritorno agli anni ’70 e questa volta devo dire che […]

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Decisamente un ritorno in scena che in qualche modo sa incuriosire sin dalle prime battute, sin dai primi video rilasciati in rete ad anticipare tutto il lavoro. Che poi lo conosciamo bene Beppe Cunico, conosciamo questo mondo che dal progressive al pop abbraccia un bel ritorno agli anni ’70 e questa volta devo dire che il suono si rende assai più contemporaneo e decisamente solenne. “From Now On” è un disco imperioso che punta dritto alla speranza, alla serenità, al ricongiungersi umano e spirituale prima di tutto con se stessi e poi con la vita e con gli altri. Non distopico il futuro, ma di nuove rinascite. La chitarra protagonista colorata da certezze ritmiche e da arrangiamenti davvero internazionali.

 

Produzione che fa un salto in avanti rispetto all’esordio. La prima cosa che è cambiata?
Progettualità chiara fin dall’inizio e maggior esperienza nella scrittura. Il disco ha preso forma nella sua interezza dentro la mia testa e l’ho sviluppato.

In questi pochissimi anni in realtà sono tante le tecnologie e le mode ad essere state rivoluzionate. Tutto questo come ha lavorato sulle scelte di questo disco?

Il concept del nuovo album si basa su una personale interpretazione della lotta tra il bene Mian (amore, amicizia, altruismo, difesa del bene comune, tutela dell’ambiente) e il male Egon (egoismo, avidità, cinismo, odio) e quindi cerco di gridare al mondo, con parole e musica, il pericolo e la necessità di risvegliarsi e di contrastare molte delle nuove tendenze e stereotipi dannosi, con la speranza di un futuro migliore per le nuove generazioni. Senza lasciarmi influenzare dalle mode del momento, ho lasciato la mia creatività scatenarsi.

 

 

E dal passato prendi sempre quel gusto progressivo ed epico del rock. Hai pensato anche di scollarti da tutto questo? Ci sono citazioni o momenti di questo genere lungo l’ascolto?

La mia composizione prende sicuramente dal passato. Nel primo album “Passion,Love,Heart&Soul”, si sentono molto i 70’,mentre in “From Now On” sono più ‘80 oriented. Sono le decadi musicali che ho vissuto intensamente e saranno sempre al mio fianco. Ho una scrittura molto istintiva e dettata dalle mie limitate capacità come strumentista. Ma sicuramente crescendo da questo punto di vista, in futuro le mie nuove canzoni si evolveranno verso nuovi orizzonti, per il momento sentire Peter Gabriel o Tears For Fears o Steven Wilson in alcuni passaggi è normale…

 

Torni anche ad un video in animazione… bellissimo. Ce lo racconti?

Grazie a Federico Amata, che ha realizzato le tavole e Nicola Elipanni le animazioni, ho voluto evidenziare fin da subito le tematiche del disco. Il grigiore che sta avanzando per portarci ad un futuro distopico, causato da quel manipolo di poche persone avide, corrotte, egoiste che purtroppo governano il mondo e che, ad un certo punto, si rendono conto di aver perso le cose importanti della vita e cercano così un riscatto per lasciare una speranza di vita migliore. E da qui in poi parte il viaggio di Mian, che dopo la sua rinascita, parte alla scoperta del mondo nascosto di gente con i piedi per terra, che vuole ribellarsi a tutto ciò, che vuole combattere la logica del dare la colpa agli altri per sfuggire alle proprie responsabilità, che non vuole più sottostare alla competizione ad ogni costo.

 

Dunque un disco di speranza e non di “fine del mondo”… cosa vedi nel futuro?

Io sono positivo di natura e ho sempre fiducia che la razza umana sia capace di grandi cose. Nonostante i segnali siano molto preoccupanti, io, nel mio piccolo, cerco di fare la mia parte per sovvertire le sorti del mondo, stimolando e sensibilizzando. La musica vera può e deve essere un potente mezzo di comunicazione, di messaggi costruttivi. La storia è costellata da grandi esempi di civiltà promulgati attraverso la Musica.

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HUMBLE | Girando il mondo, contaminandosi di libertà https://www.soundcontest.com/humble-girando-il-mondo-contaminandosi-di-liberta/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=humble-girando-il-mondo-contaminandosi-di-liberta Mon, 11 Dec 2023 14:27:24 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63169 Facciamo il giro del mondo a bordo del futuro, il futuro della tecnica che tanto si aggrappa a stilemi passati o, per meglio dire, classici. Quella tecnica che oggi ci porta in fuga altrove stando comodamente seduti sul divano di casa. Sono gli Humble, progetto di nuova vita a firma di Umberto De Candia e […]

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Facciamo il giro del mondo a bordo del futuro, il futuro della tecnica che tanto si aggrappa a stilemi passati o, per meglio dire, classici. Quella tecnica che oggi ci porta in fuga altrove stando comodamente seduti sul divano di casa. Sono gli Humble, progetto di nuova vita a firma di Umberto De Candia e Enrico Zurma. Un primo disco che punta subito in alto: “Gateway” che è contaminazione pura e più di tutto è libertà espressiva di genere e di forma. Dal funk al jazz, all’elettronica che cerca il pop fin dentro le soluzioni esotiche. E si fa il giro del mondo… o forse solo di una parte di mondo. Il risultato è che questo disco è assai prezioso e non vale l’attenzione scarna che spesso si dà alle produzioni d’esordio…

 

 

Bellissima produzione, complimenti. Suono suonato… che di tanto in tanto si rifugia dentro soluzioni digitali o sbaglio?

Umberto: credo che il nostro progetto non sarebbe potuto esistere senza il digitale. Ci ha dato la possibilità di poterci esprimere senza pensare ad alcuni costi e ha fatto la differenza.

Enrico: il digitale è ormai un grande strumento per poter produrre musica per chi non può permettersi ore di registrazione prenotate in studio.

Ormai anche a casa informandosi sulle cose giuste e sperimentando si può fare veramente molto (vedi Billie Eilish e Finneas).

 

Calandoci nel dettaglio, come ci avete lavorato? Quanta produzione è stata misurata in modo artigianale e quanto spazio avete lasciato all’improvvisazione?

Umberto: qualcosa di improvvisato c’è, soprattutto ai primi stadi di scrittura, ma “Gateway” è comunque il frutto di 2 anni di lavoro parecchio intensi in cui abbiamo lasciato poco al caso.

Enrico: di improvvisato ci sono le idee che abbiamo lasciato fluire, quando magari ci eravamo prefissati una direzione a livello di giro di accordi o di melodia, a volte il momento porta nella direzione giusta in poco tempo confronto ad una mossa studiata da giorni.

 

 

Nella scrittura come avete abbracciato tanti stili diversi? Siete andati di istinto oppure avete ben misurato le parti?

Umberto: io ed Enrico abbiamo suonato talmente tanto insieme in questi anni da esplorare diversi generi, crescendoci e studiandoli negli anni. I vari generi toccati sono un sunto di dove siamo arrivati finora

Enrico: certi brani vengono da mie forti preferenze musicali, altri ho abbracciato la sfida di provare ad addentrarmi in percorsi nuovi, anche sbattendo la testa più volte.

 

Nello specifico mi incuriosisce sentire come dentro uno stesso disco c’è un pezzo come “Chicago” e poi “Venezia”. Quest’ultimo è davvero ancora agli anni ’50… vero?

Umberto: io volevo essere come Sam Cooke. Forse si é sentito troppo.

Enrico: colpa di Umberto, io sono andato per John Mayer.

 

Citazioni di stile? Radici e ispirazioni? Una panoramica di questo disco così multi-etnico?

Umberto: mi fa sorridere come ognuno ci veda dentro stili, cantanti ed artisti diversi, di brano in brano, io ho avuto ispirazioni precise che qualcuno ha indovinato (Timberlake, Usher, Bruno Mars per le parti cantate e molto hip hop anni 90 per le parti più rap), ma mi piace tantissimo sapere cosa ci hanno sentito gli altri.

Enrico: le radici sono la discomusic, principalmente Nile Rodgers, l’ispirazione è Tom Misch, il neo soul combinato a moltre altre cose, funk, hip-hop, strutture jazz e anche qualcosa di pop per certi versi.

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TONY TAMMARO | La notte dell’epica tamarra https://www.soundcontest.com/tony-tammaro-lepica-tamarra-fa-il-giro-del-mondo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=tony-tammaro-lepica-tamarra-fa-il-giro-del-mondo Tue, 05 Dec 2023 22:21:27 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63107 Otto album all’attivo più una raccolta, un numero non quantificabile di “cassette” vendute, tre film, un programma televisivo dagli ascolti altissimi e, udite udite, a consolidare una carriera senza bassi, un’autobiografia scritta a quattro mani con il professor Ignazio Senatore per Graus Edizioni. Tony Tammaro, figlio d’arte, è prima dj nei più rinomati locali partenopei, […]

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Otto album all’attivo più una raccolta, un numero non quantificabile di “cassette” vendute, tre film, un programma televisivo dagli ascolti altissimi e, udite udite, a consolidare una carriera senza bassi, un’autobiografia scritta a quattro mani con il professor Ignazio Senatore per Graus Edizioni. Tony Tammaro, figlio d’arte, è prima dj nei più rinomati locali partenopei, carriera per la quale rinuncia ad un avviato lavoro nell’editoria. Poi cantautore e narratore dell’epica tamarra in the world.

 

(Più di) Trent’anni di carriera vissuti intensamente. Ma com’è cominciato tutto? Soprattutto il tuo illustre genitore che pensava di Tony Tammaro?
Mio padre (Egisto Sarnelli, chansonnier di classici napoletani e di canzoni francesi) possedeva un’immensa libreria su un unico argomento: “la canzone classica napoletana”. Sono cresciuto leggendo i testi e ascoltando le musiche dei grandi autori del passato. A un certo punto non ne ho potuto più di leggere e ascoltare gli altri e ho cominciato a scrivere le mie cose collocandomi nel settore di nicchia della “macchietta napoletana” e mi è andata così bene che ho cominciato a superare il genitore in popolarità. A mio padre le mie canzoni non piacevano, ma poi se n’è fatta una ragione, tanto è vero che curò la regia del mio primo sold out al Palapartenope di Napoli 30 anni fa.

Sei dovuto passare più volte per tutti i comuni campani prima di fare il “salto” in Italia. Ma da lì sei volato a Parigi, Lisbona e dove ancora? Ti mancano solo Mosca e San Pietroburgo per superare Al Bano…

Per l’Est ci stiamo attrezzando. Alla fine a me basta un pubblico di meridionali per organizzare uno spettacolo all’estero e i meridionali sono ovunque, probabilmente anche a Mosca.

Non sono mancate le lectio magistralis in diverse Università italiane. Sei stato invitato come “tamarrologo” o per quali altre competenze o motivazioni?

In quelle circostanze ho parlato dei più svariati argomenti: della filiera produttiva della musica leggera alla facoltà Economia e Commercio di Capua o del mondo della pirateria musicale alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli. Alla facoltà di Lettere della Federico II parlai della poetica e dell’uso delle rime nella canzone classica napoletana.

Ti sei mai chiesto quali sono le ragioni del tuo successo? Nel senso, come fanno le tue canzoni a mobilitare quasi tre generazioni di insospettabili “tamarri”? Può dipendere dalla tua capacità di analizzare i comportamenti al limite del patologico dell’essere umano?

Ho cercato anch’io spesso le motivazioni di questo fenomeno. Da un lato c’è il fatto che canto in dialetto o, meglio, in lingua napoletana e a noi napoletani fa sempre piacere ascoltare la nostra lingua piuttosto che l’italiano. In più c’è il fatto che ognuno di noi può riconoscersi in certi episodi di vita vissuta che ho narrato, tipo quello del portiere che da bambini ci bucava il pallone mentre giocavamo in cortile o delle tante frittatine di maccheroni che abbiamo consumato in spiaggia. Infine, c’è che una sana risata ogni tanto fa bene a tutti.

Come si è evoluta la figura del “tamarro” dall’inizio della tua carriera? Dalla frittata di maccheroni al SUV che trasformazione c’è stata? Io preferivo il tamarro del passato, più genuino e meno violento…

Assolutamente lo preferivo anch’io. Oggi il tamarro è spesso violento e imbottito di droga. C’è stata un’involuzione del tamarro.

Anni fa traevi ispirazione per i tuoi testi da quel teatro a scena aperta che è Napoli, girovagando con la “visparella” e lasciandoti ispirare da quello che ti accadeva intorno. Oggi basta fare un giro su TikTok (purtroppo) per trovare una realtà che supera ogni fantasia. Quanto utilizzi i social per sondare usi e costumi dei tuoi personaggi e delle tue ambientazioni?

I social li uso tantissimo. Passo quasi sei ore al giorno a rispondere ai miei fans e a documentarmi. Da Facebook in poi, non ho più bisogno di andare in giro con la vespa per cercare personaggi e situazioni da descrivere nelle canzoni. Li trovo belli e pronti sullo schermo del mio smartphone.

L’anno scorso hai festeggiato i 30 anni di carriera (più o meno) con la Notte dei Tamarri, mega evento organizzato nei minimi dettagli al Palapartenope di Napoli. Quest’anno la festa raddoppia con la Notte dei Tamarri 2. Che spettacolo sarà quello del 27 dicembre? E soprattutto la Notte dei Tamarri è diventata ormai una festa tra le feste comandate a tutti gli effetti?

Quest’anno sarà una specie di “Tammaro and friends”. Tantissimi colleghi (non necessariamente tamarri) verranno a trovarmi. In più avrò degli sgargianti costumi di scena e ho fatto preparare una “bomboniera” da regalare a tutti i 3200 spettatori.

Come si pone il tuo personaggio nei confronti del nostro essere donna oggi? Ah no, scusa, questa era per un altro Maestro! A proposito, a quando una “Patrizia” in jazz…? Ormai tutto quello che è “…in jazz” fa tendenza…

Beh, col jazz mi sono cimentato e ho anche suonato discretamente la chitarra semiacustica (quella da jazzista) nel brano ‘E quatt’a notte contenuto nell’album “Yes I cant” del 2010.

Un grande in bocca al lupo per la Notte dei Tamarri e massimo rispetto per tua carriera!

Crepi il lupo, così la lupa resta vedova e si prende la pensione di reversibilità.

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